Il mondo culturale e dell’arte, newyorkese, ma non solo, sta cercando il linguaggio giusto per combattere l’antisemitismo. E lo fa in modi diversi e inusuali.
Parecchi episodi hanno allarmato negli ultimi tempi l’intero mondo ebraico americano, a cominciare dalla cena a cui l’ex presidente Donald Trump ha invitato il suprematista bianco Nick Fuentes e il rapper Kayne West e le dichiarazioni con cui lo stesso Trump ha accusato domenica le comunita’ ebraiche americane di ”mancanza di lealtà” per averlo criticato per l’invito. Gli osservatori hanno registrato una crescita costante degli attacchi e delle minacce, in persona o sui media.
A confermare l’allarme anche il marito di Kamala Harris, Dough Emhoff, che ha descritto l’aumento degli episodi di antisemitismo negli Stati Uniti come ”un’epidemia di odio” durante una tavola rotonda che si e’ svolta mercoledì scorso a Washington.
Il mondo culturale e artistico americano, da quello cinematografico e teatrale a quello museale cerca di combattere questo fenomeno con proposte e suggerimenti diversi da quelli dei politici o delle organizzazioni ufficiali ebraiche.
Il primo passo lo ha fatto la New York Historical Society. Gia’ a fine luglio di quest’anno, il grande museo affacciato sul Central Park ha inaugurato in una piccola sala una affascinante mostra che si puo’ ancora visitare e che si intitola ”Confronting Hate: 1937-1952”. Organizzata da Debra Schmidt, curatrice per le esposizioni speciali, e da Charlotte Bonelli , direttrice degli archivi dell’American Jewish Committee, l’esposizione racconta l’incredibile battaglia mediatica lanciata alla vigilia delle Seconda Guerra Mondiale per combattere lo spettro del crescente antisemitismo in America. All’epoca, gli isolazionisti erano una forza crescente negli Stati Uniti, i demagoghi come padre Charles Coughlin non mancavano di attaccare gli ebrei alla radio e Hitler finanziava e aiutava molte delle circa 500 organizzazioni antisemite presenti in America. Nei sondaggi, il 41 per cento degli intervistati era convinto che gli ebrei avessero troppo potere. Per reagire a tutto questo, il Jewish Committee aveva dato incarico al pubblicitario Richard Rothschild di organizzare una campagna di pubbliche relazioni. Convinto che le risposte dirette servissero a poco, Rothschild aveva creato, quando ancora il mondo di internet era lontano, una incredibile campagna fatta di colorate storie a fumetti, trasmissioni radio ironiche, irriverenti o commoventi e chiesto l’aiuto di personaggi famosi come Judy Garland e perfino Frank Sinatra. Adesso, ad ammirare i fumetti esposti nella mostra e ad ascoltare l’emozionante funzione religiosa ebraica organizzata in Germania dalle truppe americane nel 1944 e trasmessa dalla NBC con l’aiuto del pubblicitario, ci sono gli studenti col cellulare in mano, troppo pronti a credere ai messaggi razzisti di Twitter, ma ora affascinati dalle immagini esposte nelle bacheche . ”C’è molto da imparare anche per confrontarsi con quello che succede oggi ”, dice Edward Halperin, un professore della Touro University che ha accompagnato alla mostra i suoi allievi.
A rendere il messaggio della mostra ancor più chiaro, tra l’altro, contribuisce anche un’altra esposizione, “I’ll have what she’s having”, che nello stesso museo racconta in tono sorridente la storia della gastronomia che gli immigrati ebrei arrivati dalla Polonia e dalla Russia hanno regalato all’America. Sbeffeggiati bonariamente in molti film e commedie, quei ”bagels”, quel pastrami, quelle ”diners” semplici e sovraffollate , racconta la mostra, sono diventati parte della cultura popolare di tutti.
Anche a teatro c’è chi lavora per trasmettere un messaggio filtrato dalla sensibilità dell’artista. Tra i lavori teatrali che hanno avuto maggiore successo nella attuale stagione di Broadway vi è sicuramente ”Leopoldstadt”, l’ultimo lavoro del commediografo anglo-cecoslovacco Tom Stoppard. Agli spettatori che ogni sera affollano il Longacre Theatre e che hanno costretto gli organizzatori a prolungare il calendario delle repliche, 38 attori raccontano la storia di una numerosa, ricca e colta famiglia ebrea Viennese convinta, agli inizi del 1900, di essere accettata totalmente dalla società austriaca del tempo. A poco a poco, scena dopo scena, l’illusione svanisce. E saranno gli unici tre sopravvissuti all’Olocausto, nella scena finale, a cercare di capire e far capire.
Più sottile e più sfumato, il linguaggio che Steven Spielberg utilizza nel suo autobiografico film appena uscito sugli schermi, ”The Fabelmans”. Per combattere l’antisemitismo dei bulli, il giovane Sammy utilizza quella videocamera da cui non riesce mai a separarsi per confrontarli e ridicolizzarli, ma anche, contemporaneamente, per umanizzarli . Combattere contro il pregiudizio, sembra dire il regista, si può fare se si hanno le armi giuste, e anche se i risultati sono qualche volta ambigui.
Con un discorso ancora più complesso, anche un altro dei film di successo appena usciti, ”Armageddon Time” di James Gray , si confronta con disagio sul razzismo. In una Queens degli anni ’80, il suo giovane protagonista ebreo, appena iscritto in una costosa scuola privata e isolato tra i nuovi compagni tanto diversi da lui, guarda da lontano il suo più caro amico, un ragazzino nero, che in quella scuola non ha potuto andare e che e’ vittima di un razzismo assai peggiore. L’antisemitismo, sembra dire il regista, si può combattere, ma senza dimenticare chi e’ vittima di esclusioni diverse e anche più dure.