Nei dieci mesi dell’aggressione armata della Russia all’Ucraina, si sono levate molte voci in favore della pace immediata e senza condizioni. Alcune hanno rappresentato l’esigenza morale di mettere comunque fine a morti e distruzioni intollerabili sul piano dei principi umanitari. Altre, l’interesse a legittimare, con un tratto di penna, l’illegalità dell’appropriazione russa di territori e popolazioni che non le appartengono. Guardando alle stragi in corso al confine dell’Europa centrale, nessuno è in grado di sapere quando ci sarà la pace, né da quali condizioni sarà favorita. Anzi – viste la volontà espansionista di Mosca e la risolutezza a resistere di Kyiv – non sappiamo neppure se quelle condizioni saranno mai disponibili. Potremmo scoprire che si potrà andare – al più – a un armistizio, come accaduto in tanti altri conflitti irrisolti della contemporaneità. L’esempio più celebre è quello coreano: regge dal 1953, settant’anni il prossimo 27 luglio.
È che per fare la pace, le parti devono essere convinte che essa paghi più dividendi della guerra. Finché una sola delle parti in lotta riterrà di ricevere dalla guerra più di quello che incasserebbe dalla pace, proseguirà ad uccidere e distruggere, tollerando le perdite che continueranno ad esserle inflitte. Non basta. Una pace sbagliata è l’anticamera di una nuova guerra, probabilmente peggiore di quella precedente, perché destinata alla demolizione dell’avversario, non più solo alla sua sconfitta.
In materia, un esempio eloquente lo ha fornito la pace di Versailles del 28 giugno 1919, alla fine della Prima grande guerra del XX secolo. A quel documento avrebbero fatto seguito, in scia, tra settembre 1919 e il 1923, altri cinque trattati che avrebbero regolato in specifico le questioni pendenti tra vincitori e le allora Austria, Bulgaria, Ungheria, Turchia, in uscita le prime tre dal controllo degli Asburgo, erede dell’impero Ottomano l’ultima.
Al di là di ogni altra considerazione, basterebbe riflettere sul fatto che ad appena vent’anni di distanza da accordi che, tra le altre decisioni fondarono la League of Nations (le Nazioni Unite del tempo), in Europa, e poi nel mondo, si sarebbe riaperto il baratro infernale di nuove operazioni belliche. Se la Prima guerra mondiale aveva ucciso (non includendo le morti da Spagnola) 10 milioni di persone (più di 9 sul campo di battaglia), alla Seconda fu pagato il balzello di 71 milioni di morti, dei quali solo 22 milioni e mezzo in divisa.
Come spiega Parigi 1919 – Nazioni e ordine postbellico, curato per Rubbettino da Davide Zaffi attraverso una serie di ottimi saggi, le conferenze postbelliche illusero le opinioni pubbliche e i governanti sulla fattibilità di “due cose”, che nella realtà di quel dopoguerra non avrebbero poi trovato riscontro: “un mondo più giusto e pacifico” e “l’onnipotenza della politica”. Erano il lievito “idealistico” da immettere nella società internazionale, secondo il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson, per cancellare definitivamente le guerre e avviare gli stati sul percorso della diplomazia aperta e della collaborazione. Un progetto miseramente fallito, come si è detto. Nei cultori europei e statunitensi dell’idealismo, occorreva fondare i rapporti internazionali sui principi di nazione e democrazia. Presto si sarebbe visto che non solo i due potevano ritrovarsi in contraddizione, ma che il primo, difficilissimo da identificare e applicare nella pratica dei rapporti internazionali, nella versione degenerata del nazionalismo si rivelava fomentatore di guerre e ingiustizie.
I dotti saggi curati da Zaffi, risultano davvero utili per comprendere gli eventi di quel tempo, i cui effetti sono arrivati sino a noi. Merita una citazione specifica il saggio di Gustavo Corni sulla Germania, con il giudizio che parte dall’isolamento del presidente Wilson (che di lì a poco, si sarebbe ritrovato isolato anche in casa, con il rifiuto statunitense ad aderire alla League) e arriva agli errori di quella pace foriera di nuova grande guerra: “Invece era apparentemente aderente alla più rigorosa Realpolitik la visione della pace che avevano gli altri principali soggetti che a Parigi avrebbero spadroneggiato.”
Da incorniciare un commento di Francesco Leoncini, nel saggio “Il riscatto dei piccoli popoli”, dedicato alla natura meschina dell’impero asburgico: “Le tragedie del Novecento sono piuttosto dovute all’incapacità delle democrazie ieri come oggi di far fronte ai bisogni delle classi subalterne e marginali, di dare concreta realizzazione a quei diritti sociali, all’abitazione, al lavoro, all’istruzione, alla salute, iscritti da tempo nei fondamentali ‘diritti umani’.”
Parigi 1919 Nazioni e ordine postbellico a cura di Davide Zaffi Rubbettino, 2022