Fino al 28 agosto alla Frick Collection di New York sulla Madison Avenue, è possibile visitare la mostra Propagazioni: Giuseppe Penone a Sèvres, composta da 11 dischi di ceramica realizzati nel 2013 in collaborazione con la prestigiosa manifattura di porcellane di Sèvres, in Francia. E’ qui che emerge la figura di Giulio Dalvit, assistente curatore per la scultura. Nato a Milano e di formazione classica, ha iniziato la sua carriera a Londra prima di arrivare nella Grande Mela.
Dove nasce la passione per i musei?
“Sono cresciuto circondato da quadri, tutti del ‘900, che il mio bisnonno collezionava senza badare troppo a fare dei distinguo di qualità. Per quanto le pareti di casa ne fossero coperte, nessuno se ne curava, in realtà. Entrambi i miei genitori hanno studiato filosofia: i libri e le parole erano al centro della nostra educazione (mia e dei miei fratelli), non i quadri o le immagini”.
Come è nata la collaborazione con Giuseppe Penone per l’attuale mostra?
“Alla Frick da diverso tempo facciamo mostre con artisti contemporanei che lavorano la porcellana: prima con Arlene Schechet e poi con Edmund de Waal. Quando abbiamo saputo che Giuseppe aveva 12 dischi in porcellana di Sèvres che non aveva mai esposto, è iniziato un progetto di collaborazione che ha funzionato in grande armonia. Lui ci ha accolto nel suo studio torinese e da lì è iniziata una conversazione durata due anni: il mio testo del catalogo, di fatto, è il frutto di una lunghissima intervista con lui”.

Come si inserisce questa mostra di cui è curatore nel contesto della collezione?
“È una mostra in dialogo con le opere in porcellana della nostra collezione. Ma è anche un momento di pausa a metà del percorso espositivo, in cui le opere di Giuseppe ci interrogano sui fondamenti del fare arte: il bianco, il cerchio, la linea, l’impronta… Sono opere ipnotiche che, nella loro semplicità formale, fanno riflettere su cosa significa produrre arte”.
Nel catalogo che accompagna la mostra parla dell’importanza del tocco e della specificità dell’aspetto materico delle opere in questione. Mi ha colpito il tempismo, ora che cadono le limitazioni pandemiche legate al contagio e al respiro. Come si posiziona la mostra nel periodo specifico che stiamo vivendo?
“Sicuramente questi due anni ci hanno aiutato a capire l’importanza e la centralità di gesti che diamo per scontati: il tocco e il respiro, appunto. Insieme all’esplorazione del rapporto tra uomo e natura, è uno dei messaggi fondamentali dell’opera di Penone dagli anni ’70”.

Che cosa comporta nell’organizzazione del museo essersi trasferiti da uno spazio all’altro?
“Cambia tutto. Siamo dovuti passare da una dimora di lusso della Gilded Age newyorkese a un edificio brutalista costruito da Marcel Breuer negli anni ’60. Abbiamo dovuto ricalibrare la Frick in senso minimalista”.
Quali sono le opere che più la emozionano e che durante la giornata di lavoro passa a osservare?
“Dipende dalla giornata e dall’umore. Il ‘Ritratto dell’uomo col cappello rosso’ di Tiziano, il ‘San Francesco’ di Bellini, il ‘Progress of Love’ di Fragonard e ‘l’Angelo’ di Barbet non mancano mai di emozionarmi”.
Cosa significa lavorare alla Frick Collection ?
“Un sogno? Un grande storico dell’arte italiano una volta ha definito la Frick ‘un museo di soli capolavori’: aveva ragione”.

Qual è la zona di New York in cui si sente bene e le piace camminare?
“Vivo ad Harlem, dove amo moltissimo passeggiare. Ma a Manhattan non ci si può mai perdere, per cui amo farmi portare dai miei passi in lungo e in largo per tutta l’isola. Amici, musei, concerti, ristoranti e teatro poi mi portano anche più in là: ma non a piedi!”.
https://www.frick.org/exhibitions/penone