É un po’ come passare dal cavallo all’automobile. Oppure dal cinema muto a quello parlato, Greta Garbo ne sapeva qualcosa.
Serve tempo per adattarsi, per comprendere fino in fondo una novità che cambia la percezione del mondo. É accaduto lo stesso a Robert Capa, il più grande tra i fotoreporter di guerra, l’uomo che con i suoi scatti in bianco e nero ha raccontato i drammi del Novecento: la guerra civile spagnola, lo sbarco in Normandia, l’Indocina. Eppure esiste un altro Capa. Poco conosciuto, divisivo, trascurato dalla critica e dal grande pubblico. Capa in color è il titolo della mostra ospitata prima ai Musei Reali di Torino e adesso, fino al 13 febbraio, alle Gallerie Estensi di Modena: 150 foto, lettere, appunti, riviste che rivelano un’altra faccia del genio. Meno documentarista e più pittore, attento al ritratto anziché al movimento. Il tocco magico di chi riesce a cogliere l’istante è lo stesso, ma applicato in un contesto inconsueto. Insomma, uno choc.
In realtà le cose non stanno come sembrano. Le immagini selezionate da Cynthia Young dell’International center of photography di New York dimostrano che Capa cominciò ad assaggiare il colore già a 24 anni quando, era il 1938, trascorse otto mesi in Cina. Si serviva allora dei primi rullini Kodachrome: per lo sviluppo venivano mandati alla casa madre, che custodiva il segreto di una tecnica ancora agli albori. Il procedimento richiedeva tempi lunghi, a discapito dei servizi che i committenti pretendevano di ricevere a tambur battente. Ecco perché il bianco e nero rimase il modo espressivo preferito, benché Capa avesse usato il colore fino alla fine dei suoi giorni.

La verità è che quell’uomo straordinario non si stancò mai di sperimentare. Non si accontentava. Cercava ovunque qualcosa che l’occhio comune non riusciva a vedere. Il suo temperamento irrequieto si rivelò fin da ragazzo: nato Budapest nel 1913, ebreo, incline a risolvere a cazzotti per strada le controversie, Endre Erno Fredmann (il suo vero nome) si disinteressò della sartoria di famiglia perché dentro aveva il fuoco. Arrestato per le sue simpatie comuniste nell’Ungheria reazionaria e antisemita, se ne andò a Berlino dove si iscrisse a Scienze politiche. Lì frequentò uno studio fotografico e capì qual era la strada. Ma l’avvento nel nazismo lo costrinse, nel ’33, a riparare a Vienna e poi a Parigi. Free lance dai pochi guadagni, conobbe nella Ville Lumière altri giovani curiosi e di belle speranze. In particolare Henri Cartier-Bresson, con cui instaurò un sodalizio che durò per sempre.
L’altro incontro fatale fu quello con Gerda Taro, compagna di vita e di lavoro: insieme volarono a Barcellona nel ’36 per seguire da vicino la guerra civile, grazie alle commesse ben pagate trovate proprio da lei. In quel momento la coppia inventa l’identità Robert Capa, fantomatico fotografo americano. Gli scatti della ditta cominciano a fare il giro del mondo. Uno in particolare diventa celeberrimo: il miliziano dell’esercito repubblicano in camicia bianca che esce correndo dalla trincea, ripreso nell’attimo della morte, vittima di un proiettile sparato dai franchisti. Si è molto discusso, successivamente, se la foto fosse autentica o costruita. Ci furono perizie accuratissime sui negativi e ricostruzioni storiche capillari degli avvenimenti di quei giorni. L’epigrafe migliore alla vicenda furono le frasi di Capa: <Per scattare foto in Spagna non servono trucchi, non occorre mettere in posa. Le immagini sono lì, basta scattarle. La miglior foto, la miglior propaganda è la verità>. Anche quella più atroce. L’amata Gerda morì nel luglio del ’37 vicino Madrid, schiacciata da un carro armato in manovra.
Il resto è storia. O meglio: è Storia. Il servizio a colori a bordo di una nave da guerra Usa, apparso sul Saturday Evening Post nel ’41. E poi Capa in Nord Africa, quindi paracadutato in Sicilia al seguito degli Alleati, l’incontro nella Valle dei templi con un giovane scrittore che si chiama Andrea Camilleri, la foto del pastore che indica la strada al soldato americano accovacciato (la pubblica Life), lo sbarco in Normandia e gli scatti perduti dal tecnico di sviluppo si salvano solo 11 fotogrammi <leggermente fuori fuoco>, per usare il titolo delle sue memorie, ma è quanto basta a sintetizzare in maniera esemplare i momenti frenetici del D-Day.

Però è il dopoguerra a segnare la rivoluzione stilistica di Capa, che aveva appena fondato nel ’47 a New York l’agenzia Magnum con Cartier-Bresson e altri tre cavalieri dell’Apocalisse. Cambia il suo scenario perché è cambiato il mondo. Un mondo a colori, finalmente: non è più tempo di conflitti, almeno non espliciti. L’aria odora di euforia, desiderio e piacere. Alle porte si profilano i primi accenni del boom economico in arrivo. In una parola: la gente vuole guardare avanti e i giornali si adeguano al new deal. Capa diventa così l’inviato specialissimo dietro a un obiettivo incruento. Compaiono i suoi reportage di viaggio in Unione Sovietica nel ’48 accompagnato da Steinbeck, a Tel Aviv e Gerusalemme andata e ritorno, nella Budapest tanto cambiata da sembrargli irriconoscibile.
Il colore nelle sue mani è il simbolo della rinascita. E resta la domanda di fondo che percorre la mostra: è il colore a rendere Capa diverso o è Capa che scatta in modo diverso quando usa il colore? Impossibile rispondere. Certo il maestro del bianco e nero sdogana quell’altra maniera di ritrarre eventi e personaggi. Lo fa con allegria, leggerezza, divertimento, ironia. I grandi magazine come Holiday, Illustrated, Ladies’ home journal, Epoca intercettano e indirizzano altrove il gusto dei lettori. Il colore significa glamour e immagini patinate: l’alta società, le feste aristocratiche, i salotti alla moda, le vacanze sulle Alpi, Kitzbuhel, Davos, Zermatt, St. Anton, Val d’Isère, Megève, i set cinematografici, via Veneto e il sentore della dolce vita romana, il lungosenna e le spiagge francesi.

Seduti al caffè o in una baita, ora c’è tutto il tempo di godersi la vita. E’ sparita la fretta di cogliere al volo l’istante prima che ti arrivi addosso un proiettile o una scheggia. L’obiettivo cattura lunghi momenti di bellezza, mondanità, sciccheria, charme, donne eleganti, buon cibo e champagne, corse dei cavalli, principi, grandi artisti, divi e divine. Le sue foto somigliano ai manifesti che Marcello Dudovich disegnava trent’anni prima. Ecco il set di Hitchcock, ecco la Bergman che di Capa si era innamorata, ecco Hemingway sulle montagne di Sun Valley, ecco Picasso che ripara con un ombrellone la moglie in riva al mare, ecco Capucine affacciata a un balcone romano, ecco Orson Welles in Marocco, ecco John Huston, Rossellini, Bogart, Peter Lorre e Truman Capote sulla costiera amalfitana, ecco la Piazza Rossa e l’incoronazione di Elisabetta seguita da Piccadilly Circus il 2 giugno del ’53.
C’è chi lo accusa di fare cartoline, di essere diventato un turista, di aver seppellito il rischio. Capa risponde per le rime: <Da anni dialogo con re, contadini e commissari e li fotografo, e ho finito col convincermi che la curiosità, insieme con la libertà di viaggiare e con le tariffe economiche, sia quanto di più vicino alla democrazia esista nella nostra epoca _ forse la democrazia, dunque, è il turismo>. E’ il suo modo di dire: non sono cambiato, i tempi nuovi vanno documentati e ovunque ci sia qualcosa da raccontare io vado. C’è anche il 25 maggio 1954 su una collina di Thai Binh in Indocina, a raccogliere le immagini della guerra francese al generale Giap. Al collo ha una Nikon S e una Contax. Sono le tre del pomeriggio. Il suo ultimo clic a colori è sommerso dal fragore di una mina che lo fa saltare in aria. Addio Capa, fotoreporter di guerra e turista globetrotter, uomo capace di guardare il mondo con umanità e partecipazione.
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