Ci sono personaggi che, in qualche modo, per ciò che fanno e per come lo fanno, diventano indimenticabili. Se poi questi personaggi hanno avuto la fortuna di attraversare periodi d’oro come gli anni fra i Sessanta e gli Ottanta del cinema, dell’arte, della musica, allora il gioco è fatto. E Ron Galella era e resta (ancora oggi a 90 anni appena compiuti, con alle spalle decine di libri pubblicati) un mito inossidabile. Perchè Ron è “the King of Paparazzi”, il re dei paparazzi, il fotografo più amato e corteggiato da molti e nel contempo anche più temuto e detestato da (tanti) altri. Di origine italiana (anzi lucana, come lui ci tiene a precisare) nella sua lunga carriera di fotoreporter d’assalto ha immortalato praticamente tutti i vip, tutte le feste, tutte le celebrazioni, tutti gli eventi mondani sul territorio statunitense (e non solo). A partire dal 1952 ha prodotto un archivio fotografico di oltre tre milioni di immagini ritraendo attori, registi, cantanti e politici. I magazine più influenti, da Harper’s Bazaar al New York Times, ne consacrarono il lavoro pubblicando centinaia dei suoi scatti rubati. Perché, proprio lo stesso Ron Galella, afferma che si tratta di foto rubate, scattate al volo, senza pensarci su nemmeno tre secondi, perché altrimenti non sono più “paparazzate”, ma foto in posa. Oggi il suo lavoro è mostrato dalla prestigiosa Staley-Wise Gallery di New York, che rappresenta anche fotografi come Richard Avedon e Helmut Newton. Sei delle opere di Galella sono parte della collezione permanente del Moma, il Museum of Modern Art.

Lo incontro nella sua casa nel New Jersey, una sorta anche di tempio della fotografia dove tutto, pareti e tavoli compresi, ricorda i suoi famosi “scatti”. Alcuni vere e proprie icone, come quelle immagini in bianconero di Mick Jagger e John Lennon insieme, di Sophia Loren che si “tira” gli occhi, di Jackie Kennedy che cammina sfuggente cercando di seminare lo stesso Ron che la insegue con le macchine fotografiche, di Marlon Branco con la pelliccia e l’aria imbronciata.
“Io e Marlon Brando – ricorda Ron Galella – non siamo mai andati d’accordo. Una volta lo fotografai mentre stava uscendo da un ristorante di New York, a Chinatown. Si arrabbiò così tanto che mi mollò un pugno diretto in faccia, e mi fece saltare anche cinque denti. Lo denunciai e vinse la causa. Da allora però quando c’era lui in giro, e sapevo che dovevo avvicinarmi, mi presentavo con un grosso casco da football in testa, che alla fine è diventato una sorta di mio simbolo. Pensi che ce l’ho ancora quel casco e sta appeso proprio all’ingresso di casa mia, come ricordo assoluto“.

Gli chiedo anche delle famose fotografie che lui scattò a Jackie Kennedy, poi signora Onassis. Era nell’autunno del 1971 e quello è diventato lo scatto più celebre e iconico di Galella: il cosiddetto Windblown Jackie, che rappresenta la Onassis durante una passeggiata su Madison Avenue a New York, colta di sorpresa dall’obiettivo del paparazzo che la stava inseguendo su un taxi. “L’autista suonò il clacson – senza che io gliel’avessi nemmeno chiesto – e così lei si girò e io ottenni la perfetta istantanea del suo sorriso da ‘Gioconda’. Lei mi ha riconosciuto quando sono sceso dal taxi e allora ha indossato i suoi occhiali. L’ho inseguita e il tassista, con un’altra mia fotocamera, ha fotografato me che inseguo Jackie”.

Ma il rapporto tra Galella e Jackie fu poi sempre assai complicato. Il paparazzo la perseguitò in modo tanto insistente e ossessivo tra un continente e l’altro (persino in Grecia) che la ex first lady fu costretta a denunciarlo per ben due volte per impedirgli di seguire lei e i suoi figli John e Caroline. Nel 1981 finalmente Galella si fermò, e non per compassione o noia, ma perché un giudice gli promise che l’avrebbe sbattuto in prigione per sessant’anni se si fosse avvicinato di nuovo alla Onassis. Ed è questa controversa associazione che lo rese il paparazzo più famoso del mondo e consolidò la sua reputazione come un tipo allo stesso tempo affascinante e in possesso di una sorta di inconsapevolezza evidente anche ai suoi ammiratori più sfegatati. Tra i quali per esempio ci fu Andy Warhol, che di lui disse poco (e bene) e abbastanza per inserirlo nell’Olimpo dei grandi: “Ron è sempre nel posto giusto al momento giusto e se dovessi chiamare un fotografo chiamerei solo lui”.

Un giudizio più che benevolo, ma che si scontrava con altri giudizi assai più caustici su Ron Galella, che sembrava essere sempre lì, pronto a scattare, nascosto fuori da un teatro, da un locale, da un ristorante o da un appartamento quando un vip invece avrebbe voluto passare inosservato. Molti i personaggi che lo avrebbero volentieri mandato a quel paese, e anche all’inferno, e talvolta anche di più. Famosa la foto di Elaine Kaufman che, verso la fine degli anni Settanta, gli lanciò un bidone della spazzatura in seguito al tentativo di Galella di fotografare Richard Dreyfus di fronte al suo omonimo ristorante nell’Upper East Side. Kaufman riporta un’espressione di ripulsione sul viso: lei, come molte altre celebrità a quell’altezza temporale, consideravano Ron uno pedinatore aggressivo e molesto. Poi ci fu la coppia Richard Burton ed Elizabeth Taylor, che Ron inseguì in Messico pedinandoli di continuo. I due la presero così male (soprattutto Burton) che riuscirono a convincere la polizia messicana a mettere dietro le sbarre il fotografo, che quella volta se la vide assai brutta. Non prima però di avergli preso le macchine fotografiche e distrutto tutti i rullini. E poi ci fu anche l’attore Sean Penn tra i cattivi, quando faceva coppia con Madonna: storici i suoi (tanti) sputi all’indirizzo del paparazzo e le minacce di prenderlo a cazzotti o alla peggio a calci. Ma l’elenco dei vip che lo vedevano come la peste sarebbe lunghissimo.

Chiedo alla fine a Ron, che mi sta mostrando centinaia di immagini storiche in bianco e nero, cosa pensa oggi dei paparazzi che lavorano per i giornali. “Non sono paparazzi quelli. Perchè i personaggi sono tutti d’accordo con i fotografi, si danno appuntamento, vogliono apparire al meglio, belli e truccati. Io invece sbucavo dal nulla, li beccavo quando facevano le smorfie, quando la loro posa non era perfetta, anzi meglio se era brutta. Era tutto un altro mondo. Bei tempi!”.