Il saggio di Scorsese su Harper’s Magazine comincia sotto forma di sceneggiatura: siamo sull’Ottava Strada del Greenwich Village. Un giovane, poco più che ventenne, tiene in una mano una copia del Village Voice (storico giornale newyorchese). Attraversa la variegata folla della città, supera negozi di dischi, di scarpe, librerie, sbirciando i vari foyer lungo la via. Arresta la corsa, si mette in fila per un film di Truffaut. Ecco che apre finalmente il Village, e tutta l’estasi del momento raggiunge il suo climax quando legge: Joseph E. Levine presenta 8½ di Federico Fellini! Il narratore Scorsese ci ha fornito tutti gli strumenti per comprendere le sue parole, semplicemente dalla prima scena.
Se Fellini fosse ancora tra noi, forse Scorsese non gli avrebbe dedicato un testo di quasi cinquemila parole. Magari l’avrebbe intervistato come fece Truffaut con Hitchcock, eppure il risultato è magistrale. Quello che leggiamo non è semplicemente un omaggio o una spiegazione appassionata. Non è nemmeno la descrizione di un ricordo. Al contrario, è un manifesto che attraverso molteplici aspetti e considerazioni vuole dimostrare la viva relazione tra “il cinema” e il suo imminente futuro. Il cinema però, inteso come 8½ di Fellini: “Si possono dire tante cose sui film di Fellini, ma c’è qualcosa di incontestabile: sono il cinema. L’opera di Fellini va decisamente oltre la definizione di forma d’arte”.
Il titolo del saggio è “Maestro, Federico Fellini and the Lost Magic of Cinema”. Non è la prima volta che Scorsese rilascia interviste e commenti chiamando Fellini “more than a filmmaker, a Maestro.”.
Una forma d’arte
“Arriviamo ai giorni nostri, quando l’arte del cinema viene sistematicamente svalutata, messa da parte, sminuita e ridotta al suo minimo comune denominatore, il contenuto”.
Molti hanno scelto di focalizzarsi sulla critica di Scorsese alla moderna percezione di contenuto, all’associazione comune di un film ad un qualsiasi altro prodotto audiovisivo dimenticandone la connotazione artistica. La colpa non è solo dei media ma anche degli algoritmi che suggeriscono a uno spettatore cosa vedere o meno, ci dice Scorsese, condannando le piattaforme di streaming per averci privato dell’esperienza in sala. “Avere dei curatori non è antidemocratico o “elitario”, un termine che ora viene usato così spesso da essere diventato privo di significato. È un atto di generosità: si condivide ciò che si ama e ciò che è stato di ispirazione”. Vuole riportarci invece ad un concetto di selezione, ricordarci i rischi che molte case di produzione e distribuzione si sono prese nel voler portare al pubblico opere viste allora come scommesse. Fa riferimento a Dan Talbot, che avviò la New Yorker Films per poter distribuire a suo rischio e pericolo un film a cui era affezionato: Prima della rivoluzione di Bertolucci. In realtà questo succede ancora oggi, o quasi mai, perché l’industria cinematografica non può più permettersi di indebitarsi in nome di un sogno. Rimane allora il grande quesito su come sarà realmente possibile veicolare le opere autoriali e quali saranno le discussioni sulla forma. Il territorio Netflix non è estraneo al regista, il quale ha già debuttato con The Irishman e Pretend it’s a city. Quello che cerca di rivendicare Scorsese, è il coraggio delle scelte nell’industria, e la qualità della produzione.

Cita una classe autoriale che nel suo tempo ha plasmato e arricchito l’idea di cineasta, scardinando le strutture dei generi, chiedendosi costantemente “cos’è il cinema?”. Godard, Bertolucci, Antonioni, Bergman, Imamura, Ray, Cassavetes, Kubrick, Varda, Warhol, Welles, Bressono, Huston. E al centro, come un perno: Federico Fellini. Quali sono le conversazioni di oggi? Dove possiamo cogliere le origini di un grande autore rispetto ad un genere in evoluzione? Non dobbiamo ricadere nell’errore di considerare la cinematografia come un’arte individuale, ma recuperare quell’immagine ad oggi perduta di registi e produttori seduti allo stesso tavolo. O magari lontani, addirittura oltreoceano, sempre pronti a cogliere una nuova influenza e svilupparla in un movimento.
Dal neorealismo al surreale
“È importante ricordare che Fellini ha iniziato nel neorealismo, il che è interessante perché per molti versi è arrivato a rappresentare il suo opposto. In realtà è stato uno degli inventori del neorealismo, in collaborazione con il suo mentore Roberto Rossellini. Quel momento mi stupisce ancora.”
8½ è un film del 1963, e arriva dopo una carriera già cominciata dal neorealismo, senza il quale Fellini non avrebbe mai sviluppato la sua magia. Si partiva dal dopoguerra, dopo vent’anni di fascismo, crudeltà, terrore e distruzione. “Come si faceva ad andare avanti, come individui e come paese?” Da qui l’estetica di un genere capace di intersecare moralità e spiritualità nel cammino di redenzione dell’Italia agli occhi del mondo. Rossellini, De Sica, Visconti, Zavattini, Fellini, questi i grandi nomi che hanno reso possibile ciò che arrivo dopo negli anni Cinquanta e Sessanta, per esempio il cinema di Pasolini o di Antonioni. “Fellini ha co-sceneggiato Roma città aperta e Paisà (pare che lui stesso abbia diretto alcune scene dell’episodio fiorentino per sostituire Rossellini malato), e ha co-sceneggiato e recitato nel Miracolo di Rossellini.” E’ dal neorealismo che Scorsese vuole lanciarci la sfida più grande, ovvero riavvicinarsi all’umanità e porre la propria fiducia in essa. Dove c’è vita, ci sono storie. Con La strada (1954), Fellini si stacca dalla cruda narrazione e comincia a confezionare un’ambientazione surreale e visionaria.
Il genere felliniano si consolida, le radici si fanno più spesse e la struttura visiva non teme di osare. La regia fa da padrona sulla narrazione. La strada fu considerato quasi un tradimento al neorealismo, proprio per la sua connotazione poetica. Il successo fu internazionale e sancì la fortuna del regista. “Fu il film per cui Fellini sembrò aver lavorato più a lungo e sofferto di più: la sua sceneggiatura era così dettagliata che arrivava a seicento pagine”. Da lì arrivarono Le notti di Cabiria (1957)e La dolce Vita (1960), quest’ultimo creò l’intrepida aspettativa verso ciò che arrivò dopo: 8½.
“Supponiamo che tu volessi descrivere l’atmosfera surreale di una cena di gala, di un matrimonio, di un funerale, di un congresso politico o, volendo, la pazzia dell’intero pianeta: tutto ciò che dovevi fare era usare la parola “felliniano”, e la gente avrebbe capito perfettamente cosa intendevi”
L’eterna epifania felliniana
“Per quanto riguarda 8½: Tutti quelli che conoscevo a quei tempi e che cercavano di fare film si trovarono di fronte ad una svolta, un termine di paragone personale. Il mio era, ed è tuttora, 8½.”
Il cinema vive da sempre un rapporto conflittuale con se stesso e con il pubblico, diviso tra consumatori avidi e chi invece è avido di conoscenza, intesa come pura analisi del profilmico. E’ argomento di studio all’università: ventenni simili a quello dell’Ottava Strada descritto da Scorsese rimangono ancora oggi folgorati dalla visione di 8½. Sussiste lo spartiacque tra ciò che apprendi dei film prima e ciò che imparerai dopo, consapevole di aver aggiunto un paradigma alla tua percezione. Ciò che è finzione, storia o documento, può essere improvvisamente anche visionaria introspezione, unendo l’abilità registica ad una ricerca tecnica ai limiti del possibile. A tal proposito Scorsese scrive:
“Oggi la gente rimane estasiata dai più recenti strumenti tecnologici e dalle loro potenzialità. Ma le macchine da presa digitali più leggere e le tecniche di postproduzione come lo stitching e il morphing digitali non fanno il film al posto tuo: il risultato dipende delle scelte che fai nella creazione dell’intero film. Per i più grandi artisti come Fellini, nessun elemento è troppo piccolo, tutto conta. Sono sicuro che avrebbe apprezzato delle macchine da presa digitali leggere, ma non avrebbero cambiato il rigore e la precisione delle sue scelte estetiche”

L’epifania felliniana colpisce forte ancora oggi, a dimostrazione della vera natura del genio creativo, supportato sì dalla tecnologia ma sempre ispirato dalla propria visione del mondo. Dal proprio amore per l’immagine e ricostruzione di essa. Solo una persona profondamente immersa nel mistero del mondo visivo poteva mettere Mastroianni nei panni di Guido e renderlo immortale. Nessuno è realmente la stessa persona dopo aver sperimentato il palcoscenico felliniano, ed anzi si accende in noi la scintilla di una rivendicazione per l’umano e le sue potenzialità.“Guardo alcuni passaggi di quel film, che ho rivisto più volte di quante ne riesca a contare, e ancora mi ritrovo a chiedermi: come ha fatto? Com’è che ogni movimento, gesto e folata di vento sembra essere sempre al posto giusto? Com’è possibile che tutto sembri inquietante e inevitabile, come in un sogno? Come può ogni momento essere così ricco di una nostalgia inesplicabile?”.
L’industria non si prende cura del cinema
“Tutto è cambiato: il cinema e l’importanza che riveste nella nostra cultura. Certo, non è sorprendente che artisti come Godard, Bergman, Kubrick e Fellini, che una volta regnavano come divinità sulla nostra grande forma d’arte, alla fine si siano ritirati nell’ombra con il passare del tempo. Ma a questo punto, non possiamo dare nulla per scontato. Non possiamo dipendere dal business del cinema, così com’è, per prendersene cura”.

Scorsese parte da lontano, ci racconta di quando ha incontrato per la prima volta Fellini nel 1970 e della difficoltà di portare La voce della luna negli Stati Uniti. Ci mette in guardia dall’industria dell’intrattenimento, pronta a banalizzare i film d’autore in una semplice categoria online. Il timore del regista è reale, la fruizione di massa ha mercificato un’arte di cui molti ignorano (consapevolmente o meno) le radici. Si rivolge a coloro che invece del cinema hanno fatto la loro professione o la propria passione. “Quelli di noi che conoscono il cinema e la sua storia devono condividere il proprio amore e le proprie conoscenze con quante più persone possibile. E dobbiamo far capire chiaramente agli attuali proprietari legali di questi film che sono molto, molto di più che semplici prodotti da sfruttare e poi mettere sotto chiave.”

Sicuramente Scorsese è a conoscenza del fatto che lì fuori esista un esercito di persone pronte a riprendersi il cinema in nome della sua magia perduta. Il suo saggio non è solo la testimonianza dell’immortalità felliniana, è ispirazione, difesa nei confronti di ciò che ha reso Guido il maestro onirico di intere generazioni. Non sarà Netflix ad oscurare i film d’autore, saremo noi a fallire se ci mostreremo incapaci di tutelare “i grandi tesori della nostra cultura”, come li definisce Scorsese. The show must go on.