Il cinema italiano degli ultimi due decenni ha evidentemente ancora un problema enorme a rapportarsi con la Storia. Quando ci sono di mezzo eventi del secondo Novecento, in particolare, i nostri film non riescono, salvo eccezioni poco frequenti, ad articolare una riflessione di spessore e non riescono nemmeno, salvo eccezioni altrettanto rare di provenienza letteraria, a virare verso il genere.
Il primo italiano in concorso a Venezia 77 non rientra tra le eccezioni: Padrenostro, terzo lungometraggio di Claudio Noce, nonostante la presenza magnetica di Pierfrancesco Favino e l’ottima fotografia di Michele D’Attanasio, annega in un mare di superficialità e nel narcisismo stilistico del regista romano, che tiene talmente pigiato il pedale del virtuosismo da creare un film senza variazioni di ritmo, un “tutto pieno” ridondante che non ha né pause né climax.
Padrenostro è una sorta di coming of age costruito a partire da un evento drammatico che ha realmente segnato la vita del regista: il 14 Dicembre del 1976, quando Noce ha solo un anno e mezzo, suo padre, il vicequestore Alfonso Noce, è vittima di un attentato opera dei NAP (Nuclei Armati Proletari), in cui perdono la vita il poliziotto della scorta Prisco Palumbo e il terrorista Martino Zichittella.
Nella sceneggiatura firmata da Enrico Audenino e dallo stesso regista, a essere vittima dell’attentato è il padre del piccolo Valerio, un bambino di dieci anni che una fervida immaginazione, un amico immaginario e un’ammirazione sconfinata per il padre. Ha assistito alla sparatoria dalla finestra, insieme alla mamma (Barbara Ronchi), e ora il trauma riecheggia nella sua quotidianità, minando per sempre la sua spensieratezza, almeno fino all’incontro con Christian (Francesco Gheghi), un misterioso ragazzino di quattordici anni, che seguirà Valerio e famiglia anche in Calabria, nelle vacanze estive tra il mare e la Sila. La figura di Christian viene tenuta da Noce volutamente sospesa tra materialità e astrazione, quasi fosse uno spettro che prende il posto dell’amico immaginario di Valerio e della cui reale esistenza spesso finiamo per dubitare.
Quello del simbolismo è uno dei tanti tavoli su cui gioca Padrenostro, che naufraga però proprio perché non riesce ad andare a fondo su nessuno di questi. Tenta di raccontare un’epoca, gli anni di Piombo, da un’angolazione diversa, dalla prospettiva dei figli, di «una generazione di bambini “invisibili” avvolti dal fumo delle sigarette degli adulti», per usare le parole dello stesso Noce, ma tra rallenty e inquadrature sghembe scivola in una rappresentazione del rapporto padre-figlio convenzionale e stereotipata, che non ha mai la forza di afferrare la Storia. Vorrebbe restituirci l’angoscia di una famiglia costretta a vivere costantemente sul filo della paura, ma la tensione si stempera via via a causa dell’estenuante vena estetizzante.
Nonostante la probabile vicinanza emotiva al materiale raccontato, Noce non riesce mai ad essere autentico, è sempre artefatto, costantemente alla ricerca della scena-madre, una ridondanza evidente nel flashback con cui Valerio ricorda la sparatoria sulle note di Buonanotte, Fiorellino di De Gregori, o nella gita in barca sottolineata da Impressioni di settembre della PFM. Appesantito ulteriormente da una retorica e ambigua cornice ambientata ai giorni nostri e da passaggi inspiegabilmente autocelebrativi (come quando Valerio, alter ego del regista, prende confidenza con una videocamera, quasi fosse il preludio al futuro talento), Padrenostro è purtroppo un film confuso e isterico, di certo non il miglior esordio per la compagine italiana in questa edizione anomala della Mostra del cinema di Venezia.