Non allarmatevi, carissimi amici e fratelli di Italia. Non è il giorno nuovo di una settimana allungata, ma un segno di sciovinismo linguistico. Vuol semplicemente dare un conio italiano agli abusati “day” anglosassoni, da Columbus day e così via. Il prof. Francesco Sabatini, accademico della Crusca e ideatore della giornata in una telefonata con Paolo di Stefano ha voluto tradurre in lingua italiana il più moderno e raffinato Dante Day. Certo farebbe raccapricciare se la motivazione fosse alla Benito che impose che Shakespeare si chiamasse Guglielmo e volle il corrispondente ridicolo italiano, anche quando non esisteva o voleva dire altro. Con certe idee di razza pura che circolano oggi in Italia dove il trend morti-nascite è a favore del decremento, farebbe un certo effetto, quando nelle Università si insegna anche sociologia in inglese. Iperbole di falso sbocco al lavoro estero o certezza ed invito di andare fuori, anche in Malesia.
Sabatini precisa che vuol riprendere il conio latino lunae dies, martis dies, etc. Omaggio a Dante e al suo rimprovero a certi italiani del tempo, ma anche rifiuto di una “mascheratura di un’espressione anglicizzante. “Era forse vietato trasferire queste coniazioni in sintassi latina al nostro volgare?”. D’altronde con un salto poetico gli sembra fonosimbolicamente più bello dire dì di indicare il giorno, la luce. Il Consiglio dei Ministri su proposta di Dario Franceschini accolse la sfida e con direttiva del 18 giugno 2017 è stata promulgato il Dantedì, in attesa del 2021 anno centenario, con una celebrazione web online.
E proprio oggi il 25 marzo è la data di questa consacrazione ufficiale di Dante come padre dell’Italia unita nel bene e nel male, l’Italia, “giardino” allora dell’Impero con un volgare, il suo fiorentino che per la prima volta diventava lingua dell’epos. O almeno per non offendere i grandi dagli epici ai tragici ne volle fare una “Comedia”. Con umiltà, espressione dei lazzi e della vita quotidiana del popolo. Boccaccio avrebbe aggiunto l’attributo di “divina”.
Certo per tanti Italiani il ricordo scolastico sarà fuorviante. Quei trenta canti per i tre anni del liceo, i cento canti dell’Università erano troppo, se già nello splendore del Rinascimento era considerato arcaico e illeggibile. E la lectura Dantis, dalla prima del 23 ottobre 1373 fatta in Orsanmichele a Firenze da Giovanni Boccaccio, quello della peste e delle cento novelle in onore del divino dai cento canti. Per noi quelle di Vittorio Gassaman, o quella di Carmelo Bene che mi ha sconvolto e turbato oggi alla lettura di un brano nel ricordo dei furori di gioventù. O quelle di Vittorio Sermonti illuminanti ed introspettive, che in parte ha avuto ragione a reagire alle letture di Roberto Benigni:
«Il suo modo di attualizzare Dante è divertente ma non si possono dire spiritosaggini e cose un po’ ovvie per adescare il pubblico. Questo non è un buon servizio fatto al Poeta e nemmeno agli ascoltatori. Ho 78 anni e mi dispiace lasciare il campo a questo tipo di divulgazione allegra. Dante è duro e severo e ci vuole durezza e severità per capirlo. È un’operazione delicatissima, che non si può fare alla buona» (Sabatini).
Anche se forse con quella sua aria sorniona da maledetto toscano poteva avvicinare tanti ottentotti insensibili con il tono allusivo e allegramente melodrammatico, con la sua ferve familiare e burlesca, in un certo senso ammiccante.
Ma chi non sente risuonare ancora in cuore quell’attacco che ci faceva rabbrividire?
Cosa vi fa sentire ancora quel terribile approccio? In una selva, quella del nostro mondo, anche odierno, tra sciacalli di morti e fiumi di denaro, oscura, selvaggia, aspra e forte:
«Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!».
Secondo interpretazioni e ricostruzioni più o meno lambiccate il 25 marzo 1300 Dante avrebbe iniziato questo viaggio dall’orrido a «l’amor che move il sole e l’altre stelle», era per i teologi del suo tempo il giorno della nascita del primo uomo, Adamo, e quello della morte del secondo Adamo, Cristo.
Ma io voglio chiudere in questi tragici giorni in cui il mondo è stravolto e le anime sono smarrite sul “perché” della strage – ed ognuno la legga in silenzio nel proprio cuore – con l’inno più bello per una donna terrena. Solo tre terzine, le altre, sono certo che le cercherete con trepidazione e proseguirete:
«Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio,tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ’l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.Nel ventre tuo si raccese l’amore,
per lo cui caldo ne l’etterna pace
così è germinato questo fiore.».