Un’immagine fuori dal comune. Sabato 1° giugno, la pioggerella e un variopinto koilon (“concavo”, la latina cavea), la selva di parapioggia. Poi all’apertura di scena, la grazia di Zeus adunator di nubi. E si ritorna a sentire il verso sincopato della tortora, e taglia il cielo il volo della colomba ritardataria. E l’urlo lacerante della sirena di un’ambulanza. Questo è il rito che si ripete ormai a cadenza annuale, la malia di un rudere che continua ad affascinare. Qui su una scena (skené, “tenda”) a noi ignota nel 476 a.C. Eschilo, chiamato da Ierone, ma forse furente per le preferenze accordate dagli Ateniesi al filoateniese Sofocle, assistette alla rappresentazione delle sue Etnee per la fondazione di Etna e anche dei Persiani, encomio della vittoria a Salamina sui primi invasori da Oriente.
E qui perì, secondo la leggenda, con il capo fracassato da una tartaruga lanciata per romperla da un gipeto. Dell’antico teatro (da theaomai, “osservo”), l’ampia gradinata modellata nell’arenaria della collina, con i suoi gradini sberciati gradini, dopo la spoliazione di Carlo V, divisi in corridoi orizzontali e in spicchi a cuneo, deturpata da un triste e scialbo tavolato. Nulla dell’antica scena, neppure le innovazioni architettoniche ellenistiche e romane, come a Taormina. Da sfondo un denso sipario di cipressi, scomparsi proscenio e parasceni laterali come pure il logheion, sul quale recitavano gli attori. Lo spazio circolare sottostante, ove si alzava la thumele di Dioniso Eleuterios (“della libertà”), l’”orchestra” (da orcheomai, “danzo”), il luogo dei coreuti, danzatori e cantanti (12 e poi 15 con Sofocle), ora si sviluppa l’intera performance. E dal 16 aprile 1914, con l’Agamennone di Eschilo, dopo 2400 anni, su una invenzione del conte Mario Tommaso Gargallo sostenuto da aristocratici e facoltosi, in primavera (nelle antiche Dionisie ateniesi il mese di Elafebolione, tra marzo e aprile), si rinnova il rito moderno, arcana malia di un mondo che, nonostante gli azzardati e ardimentosi moderni allestimenti scenici e iconografici, fa risuonare la voce eterna dell’uomo, ricreata nell’immagine di un mito già allora consunto.
In questa travagliata epoca di guerre infinite, palesi o celate sotto il velo ipocrita dell’economia, fra macerie fumanti e corpi martoriati, in regioni intere rase al suolo, tra despoti e fascinatori di masse, che promettono ordine, l’Inda (Istituto Nazionale dramma antico) ha voluto porre al centro tematico di questo 2019 la guerra. Tormento assillante di Euripide, sconvolto dalla ferocia e dai disastri di quella lunghissima e feroce del Peloponneso, unico cantore del dramma di questo dramma, con il seguito della peste di Atene del 430 a.C. e la strage a Siracusa, un esercito in fuga trucidato o richiuso nelle Latomie. Oggi ancora le guerre. Come in quei tempi. Come quel Tibullo che gridava; Quis fuit, horrendos primus qui protulit enses? / Quam ferus et vere ferreus ille fuit! (I, X, 1-2), maledetto chi ha inventato le spade. Maledetto chi prospera fabbricando armi. E pure il canto di Euripide che brama la pace, il poeta distrutto e angosciato che non ha la forza di poetare: «Giaccia la mia lancia, perché l’ordito vi intreccino i ragni e tranquillamente a me si accompagni la canuta vecchiaia: possa io intonare canti adornato il capo canuto di corone, dopo avere appeso il tracio scudo ai talami di Atena cinti di colonne e possa svolgere la voce delle tavolette, dove han fama i sapienti».
Proprio nel 415 a.C. Euripide presenta la tetralogia: Alessandro (figlio di Priamo, esposto sull’Ida), Palamede (saggio e vittima delle astuzie di Odisseo) e infine le Troiane, unica pervenuta, ciclo concluso con il dramma satiresco Sisifo. Con una originale e innovativa tecnica ad episodi, si sviluppa e si intreccia l’angoscia delle vinte Ecuba, Cassandra, Andromaca e la causa di tutti i mali Elena, una “elegia accorata composta in forma drammatica” (Schmid), tenebra senza speranza, assenza di ogni bene nell’anima di vinti e vincitori. senza un barlume di umana bontà per il cuore di vincitori e vinti.
E tre anni dopo nel 412 a.C. tornava con una tetralogia straordinaria (l’altra tragedia nota solo Andromeda) su un personaggio che era stato reso raramente protagonista, l’effige e metafora di tutte le cause delle guerre. Era l’accenno nell’Odissea sul nostos di Menelao e il suo soggiorno con Elena in Egitto. Ma era soprattutto la dirompente critica di un nostro grande siceliota, Stesicoro, dissacratore di miti con la sua Palinodia. Strabiliante l’incontro tra la vera Elena e il suo eidolon, l’immagine che Menelao crede di avere salvato. Come la tremenda guerra del Peloponneso e l’intervento in Sicilia con il pretesto del dissidio tra Selinunte e Segesta, le guerre secolari di tutti i tempi fino all’assassinio di Sarajevo o alle false armi chimiche di Saddam, ora la annunziata minaccia di Assad. Gli idoli, i falsi pretesti, tante guerre per una falsa immagine a giustificare le stragi e gli orrori. Allora conquiste di zone strategiche con incendi e stupri, l’eterna questione del Bosforo, oggi con armi più micidiali e sofisticate e con torture più orrifiche e scientifiche. Eppure anche Achille si era scoperto un piagnone per la morte del suo amichetto e Priamo aveva avuto l’onore del corpo del figlio. Euripide che aveva vissuto per tutte quella guerra, anatomizzata da Tucidide (La guerra del Peloponneso) e era inorridito per il contemporaneo disastro siracusano del 413-12.
La fuga: «Ma anche quando venne l’ora di sgomberare il campo, lo spettacolo s’offriva tristissimo ai partenti: e dagli occhi la pena calava a ghiacciare il cuore. I cadaveri s’ammontavano scoperti: e quando si scorgeva un proprio caro rovesciato a terra, lo spirito s’irrigidiva in un orrore umido di pianto.». La strage del fiume Asinaro e poi le Latomie: « «Nelle cave di pietra il trattamento imposto nei primi tempi dai Siracusani fu durissimo: a cielo aperto, stipati in folla tra le pareti a picco di quella cava angusta, in principio i detenuti patirono la sferza del sole bruciante, e della vampa che affannava il respiro. Poi, al contrario, successero le notti autunnali, fredde, che col loro trapasso di clima causavano nuovo sfinimento e più gravi malanni. Per ristrettezza di spazio si vedevano obbligati a soddisfare i propri bisogni in quello stesso fondo di cava: e con i mucchi di cadaveri che crescevano lì presso, gettati alla rinfusa l’uno sull’altro, chi dissanguato dalle piaghe, chi stroncato dagli sbalzi di stagione, chi ucciso da altre simili cause, si diffondeva un puzzo intollerabile. E li affliggeva il tormento della fame e della sete (poiché nei primi otto mesi i Siracusani gettavano loro una cotila d’acqua e due di grano come razione giornaliera a testa)» (Tucidide, VII, 75 e 87, trad. Ezio Savino).
Un giudizio sulla performance odierna ripropone la ricorrente polemica sulle rivisitazioni delle opere antiche in allegorie moderne, le cervellotiche letture del teatro greco, ma anche le attualizzazioni e modernizzazioni di Shakespeare o pure delle opere liriche. Qui Davide Livermore dopo i successi alla Scala con l’Attila, ci ha propinato una intera recita in uno stagno, ove Elena correva seduta su una poltrona a motore da paraplegica. Più tradizionale Muriel Mayette, la prima regista donna a Siracusa, con i suoi tronchi di bosco morto e una corifea che canta su dolci motivi. Anche le scenografie e i costumi sono il cavallo di Troia dei moderni, create per suscitare quanto più stupore. E nonostante i moderni amplificatori, a Siracusa la recitazione gridata, enfatica e sopra le righe (penso alla pur bravissima Ecuba-Maddalena Crippa, stupendo invece il Taltibio-Paolo Rossi), su musiche che stordiscono, talvolta assordante jazz. Qui anche la romantica chitarra. Perciò, come ogni anno, le tragedie greche sono apparse un pretesto per rielaborazioni che tengono conto soltanto di uno spettacolo stupefacente per un pubblico assai eterogeneo per età e cultura.
Mi chiedo perché la Lisistrata, rappresentata nel successivo 411 a.C., segue sola soletta a parte, con la sua modernissima parodia sessuale della guerra e con l’adagio, “me la gestisco io”. È altrettanto dirompente e conseguente la solitudine delle donne a casa, come la deflorazione delle vittime dei vincitori. E di questo si deve dare atto al conservatore Aristofane.