Una volta tanto si può dire: ha vinto il migliore. Il festival di Cannes, edizione numero 72, va in archivio registrando il trionfo di “Parasite”, del coreano Bong Joon-ho, uno dei film più attesi alla vigilia e probabilmente il più riuscito di un concorso comunque dal livello molto alto.
Prima di vedere tutti i premi assegnati dalla giuria guidata da Alejandro González Iñárritu, facciamo un paio di considerazioni su questo film, il cui successo ha davvero messo d’accordo un po’ tutti.
Bong Joon-ho è un nome noto agli appassionati di cinema per film come “The Host”, “Snowpiercer” o “Okja”, quest’ultimo presentato qui nel 2017. In questi film, il regista coreano aveva sfruttato il potenziale allegorico della fantascienza per criticare l’ingiusta natura del capitalismo e della gerarchia di classe. Con “Parasite”, Bong rinuncia al “genere” ma firma comunque un’opera “arrabbiata”, che affronta con toni da commedia nerissima la questione delle differenze sociali nelle società capitalistiche, la disperazione, la frustrazione e la rabbia – spesso autodistruttiva – dei “poveri”, contrapposta alla cinica e fasulla ingenuità dei “ricchi”. La lotta di classe, in “Parasite”, è anche questione di odori e di spazi: la storia prende avvio nello squallido seminterrato, caotico e maleodorante, dove vive la famiglia di Ki-taek, padre cronicamente disoccupato, con sua moglie Chung-sook, la sua intelligente ma cinica figlia ventenne Ki-jung e il figlio, Ki-woo.
Nella prima sequenza del film, i due ragazzi vanno alla ricerca della una connessione wi-fi gratuita di un bar poco distante, inerpicandosi sui loro sudici mobili, mentre la madre piega centinaia di scatole da pizza ammucchiate, il cui assemblaggio è l’unica fonte di reddito della famiglia: un nucleo familiare fottuto da un sistema che non ha alcuna pietà per coloro che si trovano ai gradini più bassi della scala sociale, ridotti a “parassiti” che vivono in una prigione di cemento senza uscita, nutrendosi degli scarti dei “piani alti”. Il meccanismo perfetto di “Parasite” si mette però in moto quando un vecchio compagno di scuola di Ki-woo lo aiuta a ottenere un lucroso lavoro come insegnante privato di inglese: con un falso diploma universitario creato dalla sorella, il ragazzo si presenta nella favolosa casa del ricco imprenditore Mr. Park. Qui emerge con forza il maggior pregio del film di Bong, quello che con ogni probabilità ha convinto la giuria ad attribuirgli il massimo riconoscimento: la gestione simbolica dello spazio, di cui il regista coreano è sempre stato un maestro, e che in “Parasite” è supportato dal lavoro straordinario dello scenografo Lee Ha-jun, che disegna la villa della famiglia Park, posta in cima a una collina, come un gioiello di design che a tratti ha però i connotati sinistri di una prigione. Chi ha visto “Snowpiercer”, ad oggi forse il film più celebre di Bong, ricorderà che lì si dava corpo a una gerarchia socioeconomica traumaticamente “sbalzata di lato”; “Parasite”, invece, impila nuovamente le classi in un mondo che va dalle fogne al cielo. I ricchi Park si riveleranno una miniera d’oro per tutta la famiglia di Ki-taek: il padre viene assunto come autista, la madre come nuova governante, la sorella come insegnante d’arte, naturalmente fingendosi completamente estranei l’uno all’altro e nutrendosi, quasi fossero degli “ultracorpi”, dello stile di vita a cui vorrebbero aspirare. Ma una questione inizia a farsi largo tra i benestanti Park: perché queste persone hanno tutte lo stesso, strano odore? Senza svelare altro, chi conosce il cinema di Bong sa che spesso i suoi film, in una sorta di struttura circolare, finiscono ripristinando lo status quo iniziale, però con un “buco” traumatico nel mezzo (e il riferimento è soprattutto a Song Kang-ho e al figlio adottivo sul ghiaccio in The Host). Anche in questo caso, “Parasite” – il film più macabro fino ad oggi del regista coreano – chiude con un guizzo che sembra sbarrare le porte a qualunque sogno di coesistenza, a qualunque forma di concordia ordinum, e sembra dirci che quanto più i personaggi del suo cinema si avvicinano a fare di quel sogno ecumenico una realtà, tanto più devastante è il momento in cui si schiantano su se stessi.
Nel resto del palmares colpisce l’assenza dei big: niente Malick, Tarantino, Dolan, p Almodovar che nonostante il suo bellissimo “Dolor Y Gloria” sia stato, insieme a “Parasite”, uno dei film più belli della rassegna, si deve accontentare del premio a Banderas come migliore attore. Niente neanche a Bellocchio con il suo pur molto applaudito “Il Traditore”. Il Gran Premio della giuria va ad “Atlantique” dell’esordiente Mati Diop, un bel film ambientato a Dakar, in Senegal, che racconta con un tocco di realismo magico il dramma delle lavoratrici e dei lavoratori sfruttati nei grandi cantieri della metropoli africana, spesso costretti a tentare un viaggio dall’esito mortale verso l’Europa. Realismo magico che caratterizza anche l’ottimo “Bacurau” di Kleber Mendonça Filho e Juliano Dornelles, che si è aggiudicato il Premio speciale della giuria ex aequo con il teso poliziesco “Les Misérables” di Ladj Ly, altro esordio di altissimo livello. Di entrambi abbiamo già parlato nel nostro primo reportage da Cannes, mentre un po’ una sorpresa è stato il premio a Emily Beecham, miglior attrice per “Little Joe” di Jessica Hausner, film ambizioso e imperfetto della talentuosa regista di “Lourdes”. Il premio più incomprensibile pare francamente essere quello ai fratelli Dardenne per la regia di “Le Jeune Ahmed”, a mio modo di vedere il peggior film della carriera dei registi belgi, racconto pericolosamente semplicistico e superficiale degli effetti nefasti che gli insegnamenti islamici integralisti hanno sulla vita emotiva di un fragile ragazzino della periferia di Liegi, un film che maneggia con troppa leggerezza una materia a dir poco incandescente.
Avrebbe infine meritato di più PORTRAIT DE LA JEUNE FILLE EN FEU di Celin Sciamma, un bellissimo e misurato melodramma in costume, firmato da una regista in stato di grazia e sorretto da due protagoniste (Adèle Haenel e Noémie Merlant, a cui si affianca anche un’ottima Valeria Golino) straordinarie, che si è aggiudicato invece solo il modesto premio alla miglior sceneggiatura che non rende giustizia alla raffinatezza formale del film.
Al di là dei premi, quella che si chiude è stata davvero un’ottima edizione del Festival di Cannes, che anche nelle sezioni collaterali (bellissimo il film che ha vinto Un certain regard, il brasiliano “The Invisible Life of Euridice Gusmao” di Karim Aïnouz) ha proposto un livello complessivo decisamente importante, nonostante l’ostinata e anacronistica guerra contro Netflix e Amazon e i loro modelli di distribuzione.
Appuntamento sulla Croisette a maggio 2020.