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Flesh Out: Michela Occhipinti riflette sul corpo della donna e le pene della bellezza

Intervista con la regista romana in occasione della sua partecipazione al Tribeca Film Festival 2019

Tommaso CartiabyTommaso Cartia
Flesh Out: Michela Occhipinti riflette sul corpo della donna e le pene della bellezza

Michela Occhipinti at Tribece Film Festival with "Flesh Out"

Time: 8 mins read

Quello che era considerato bello nell’800 non è più bello oggi, quello che noi occidentali consideriamo bello d’altra parte del mondo potrebbe non esserlo. La rincorsa spasmodica a dei modelli estetici imposti ci costringe a tormentare il nostro corpo, ad inquinarlo con degli eccessi o delle deprivazioni, alterarlo, plastificarlo, aprirlo e ricucirlo. È in particolare il corpo femminile ad essere stato sempre vittima di meccanismi mercificanti, che hanno costretto la donna a dovere e voler essere bella per gli uomini, per la società, per il confronto spesso spietato con le altre donne, prima che per sé stessa. Anche la donna mauritana è vittima di tutto questo. Nel loro sistema di matrimoni combinati, sin da bambina la donna è spinta ad ingrassare, ingurgitando cibo a qualsiasi ora del giorno e della notte, per risultare sensuale ed appetibile agli uomini che ciclicamente faranno visita alla famiglia per scegliere quella che potrebbe diventare la futura moglie. La floridezza è sintomo di ricchezza, in una regione povera dove spesso reperire cibo è difficile. Le forme sovrabbondanti della donna mauritana sono il suo biglietto da visita per entrare nella società che conta, è la sua futura dote, la certezza di una vita migliore, più agiata, un orgoglio. La magrezza dall’altro canto è considerata una vergogna.

Un antico detto mauritano recita infatti: “Maggiore è lo spazio che una donna occupa sul tappeto, più grande è lo spazio che occupa nel cuore del suo innamorato”. La regista romana Michela Occhipinti ci accompagna mano nella mano in questo mondo apparentemente così lontano da noi, ma sorprendentemente vicino. Verida, come ogni brava ragazza mauritana, è ossequiosa e rispettosa delle regole e delle tradizioni che si tramandano da generazioni, sa già dalla nascita quale sarà il suo destino. Tradizione e modernità convivono però in quello che è uno sguardo contemporaneo. Queste sono delle ragazze di oggi, con l’i-phone in mano, le uscite con le amiche, le confidenze con la madre, le prime pulsioni amorose, amanti del lusso, della moda, delle belle borse e dei trucchi che le permettono di assomigliare di più ai modelli estetici occidentali. Ma sanno che verranno svegliate nel cuore della notte per ingurgitare del cibo, sanno che devono prepararsi a quello che un giorno sarà l’egemonia di un uomo che non hanno la possibilità di scegliere ma che le assicurerà una vita dignitosa. Questo fa parte della loro quotidianità.

Occhipinti ci porta sotto la pelle di Verida, dentro casa sua, nei suoi affetti, nei suoi sogni, nel suo cuore profondo. In camera sua spicca questo cuore al neon che forse rappresenta un po’ il suo di cuore, il suo sogno d’amore, declinato però con quella che è la sua società, la sua realtà. Le sue aspettative sono probabilmente diverse da quelle di una ragazza occidentale, come forse la visione che ha del suo corpo, sentirsi grassa dovrebbe voler dire sentirsi bella, ma bella per chi? Probabilmente per quel sistema patriarcale che ha imposto al corpo della donna un modello innaturale, in questo caso portato all’eccesso. Ed è qui che il discorso di Michela Occhipinti diventa assolutamente universale. In un gioco a specchi difformanti, l’ossessione per la grassezza imposta a Verida è l’ossessione per la magrezza imposta dall’ultima influencer di instagram di turno, che propone alle giovani ragazze un modello di donna magrissima, mezza nuda in bikini. La regista  entra in punta di piedi, è rispettosa, sottile, nel suo accarezzare il mondo di Verida senza imporre un commento esterno, un giudizio, un’architettura drammatica invadente. Ci presenta questo mondo per quello che è, con un registro verista, neorealista. La camera è sempre dalla parte delle donne, è il loro punto di vista, la loro storia, quello che accade nel loro mondo prima di aprirlo a quello maschile.

Abbiamo incontrato Michela Occhipinti in occasione della sua partecipazione al Tribeca Film Festival 2019, dove con orgoglio, merito e prestigio ha l’onore di rappresentare il cinema italiano qui a New York come unico film in gara.

Puoi raccontarci dell’origine di questo film? Cosa ti ha ispirato a raccontare questa storia?

“È stato casuale ma anche molto personale, nonostante possa sembrare un paradosso sentire personale e vicina la storia di una ragazza della Mauritania sottoposta alla pratica della gavage. Il progetto è nato tanti anni fa, nel 2011. In quel periodo, all’insorgere delle prime rughe, ho avuto per la prima volta l’impressione che stavo invecchiando. Questo ha comportato una riflessione profonda sul passare del tempo ma anche sul fatto che esteticamente mi desse fastidio vederle quelle rughe, capire che come donna stavo invecchiando. Mi sono chiesta, perché mi dà così fastidio, perché a noi donne dà così fastidio vedere il nostro corpo cambiare e la nostra avvenenza scemare? Ho iniziato a riflettere su tutto quello che le donne fanno per sentirsi belle e sconfiggere il tempo, dalla chirurgia estetica, ai trucchi, facciamo delle cose mostruose ai nostri corpi per sentirci belle. Volevo raccontare di questa ossessione per la perfezione estetica che a volte genera mostri. Quando poi mi sono imbattuta per caso in un articolo che trattava il tema del gavage sono rimasta di stucco. Ho prima pensato che fossero fuori di testa in Mauritania, ma poi mi sono subito resa conto che in realtà sono molto simili a noi, ma allo specchio, noi siamo ossessionati dalla magrezza, loro dalla grassezza, ma abbiamo moltissimo in comune”.

Una scena da “Flesh Out” (Il corpo della sposa) di Michela Occhipinti

Cosa c’è quindi di universale nella storia che ci racconti?

“In fondo il fatto che tu voglia cambiare il tuo corpo è il grande tema universale, poi qual è la forma che vuoi ottenere è relativo. Il fatto che qualcosa o qualcuno ti imponga una pressione psicologica tale da costringerti a voler modificare il tuo corpo per obbedire a dei canoni estetici è il tema. Il percorso è di mortificazione. Mi sono chiesta, ma chi le detta queste regole? E pensando proprio al mondo dal quale vengo io, dall’Occidente, i canoni estetici femminili sono cambiati tantissimo nel corso dei secoli, e quello che era sexy un tempo oggi non lo è più. Nell’800 per esempio la bellezza era florida, addirittura nei dipinti di quel tempo amavano mostrare la cellulite delle donne perché era considerata sensuale. Poi invece siamo passati al modello della magrezza anoressica. Dietro a tutto questo c’è il gusto maschile ma anche un mercato, una richiesta, ci sono le industrie cosmetiche, un sistema complesso. Ho voluto riflettere su questo dal punto di vista di un altro paradosso estremo”.

Quindi pensi sia ancora molto presente questa forma di pressione psicologica dettata dalla società patriarcale nei confronti del corpo della donna?

“Lo è assolutamente. Quello che ho capito dopo il lungo processo di produzione di questo film, che è durato quasi sette anni, è che la mancanza di libertà che ha la donna e la pressione psicologica è uguale sia in Occidente che in Mauritania, solo che lì è più diretta, è dentro la struttura delle famiglie. Fare il gavage fa parte della loro società, per loro è una cosa normale, e le ragazze che nascono in quell’ambiente, lo sanno, sono consapevoli che è qualcosa a cui andranno incontro. Questo non lo rende meno giusto o meno violento, però è onesto. Nell’Occidente, e per Occidente intendo non solo Europa e America ma anche Asia, intendendo una parte di mondo ricca, il meccanismo è più subdolo, omertoso. Nessuno in famiglia deve necessariamente prepararti e renderti consapevole dei compromessi che come donna dovrai accettare. Ma tutto te ne parla, il sistema intorno a te, te lo palesa; i giornali, i social media, le modelle, le influencers, le immagini photoshoppate. Il corpo è lo strumento con cui ti manifesti al mondo, il corpo è il nostro tempio ma viviamo in un periodo storico dove è sempre più difficile prendersene cura nel modo giusto. Pe esempio, io amo la tecnologia, penso però che la utilizziamo malissimo. Ci facciamo sopraffare dalla tecnologia invece che utilizzarla come strumento. I profili delle persone su Facebook, su Instagram, possono essere allarmanti, sembrano per la maggior parte fittizi, le foto alterano la realtà, sono tutte ritoccate. Penso alle ragazzine di tredici, quattordici, quindici anni nel pieno del loro risveglio ormonale, nel momento di passaggio da ragazza a donna, che già hanno difficoltà a capire cosa sta cambiando nei loro corpi, e che oggi si ritrovano anche in questo mondo finto che lancia dei messaggi sbagliati, che confonde le idee ancora di più.

Parlando del mondo dei social media, è interessante nel film questo contrasto tra modernità e tradizione. Le ragazze della Mauritania alle quali è imposto il gavage sono però tutte con l’i-phone in mano, come convivono le due cose?

“La loro è una cultura molto forte. Le ragazze che ho conosciuto io vivono molto localmente. Poi sì, vanno sui social media ma sono molto legate alla tradizione, sono ossequiose, vestono il velo etc… Però sono molto moderne nel senso che sono libere di uscire, vedersi con le amiche al bar, lavorare. Loro sono più affascinate dal lusso, dalle borse griffate, dai trucchi. Vogliono la pelle più chiara ed utilizzano moltissimo la baby cream per sbiancare il viso. Le riviste però che hanno a disposizione sono quelle locali, che raccontano il loro mondo”.

La regista Michela Occhipinti con il team di “Flesh Out” al red carpet di Tribeca 2019 Flash Out

Oltre alla pressione della società patriarcale, c’è secondo te un ruolo ed una responsabilità delle donne nel scegliere quel tipo di destino per le loro figlie?

“Quella della Mauritania è una società molto complessa e stratificata. C’è il regime del patriarcato in società e quello del matriarcato in casa. La Mauritania è un paese dove la vita di tutti i giorni si consuma molto nei posti chiusi, nelle case, questo per cultura, per religione ma anche e soprattutto per il caldo. In casa vige il matriarcato. Sono le donne che si occupano di fare ingrassare le figlie, le nipoti. Tutto questo viene fatto per l’uomo, ma io ho tenuto tanto a livello di regia che gli uomini fossero delle figure marginali. La camera da presa è sempre fissa sul punto di vista delle donne, perché è la loro storia. Il ruolo della madre è molto interessante, perché è la madre che ti nutre, che ti dovrebbe proteggere. Ma in questa storia l’istinto materno di una madre, portato al parossismo, diventa una tortura, perché costringe la figlia a mangiare, a ingrassare e non a nutrirsi. Solo se grassa la gente penserà che la ragazza viene da una famiglia benestante, si potrà permettere una dote e fare un giorno parte della società che conta. La madre vuole consegnare la figlia al futuro marito anche perché così non peserà più economicamente sul bilancio famigliare. Questa madre però è una figura di donna semplice. Non è una donna cattiva, lei fa queste cose perché è il mondo che conosce, è la sua tradizione, tutte le donne della sua famiglia lo hanno fatto”.

Parlaci del conflitto del personaggio di Verida, e della sua ribellione che però non è urlata, è molto sottile.

“Mentre scrivevo questo film, dei miei collaboratori mi consigliavano di inserire più elementi narrativi, più conflitti drammatici. Ma io non volevo raccontare questa storia da un punto di vista occidentale. In una cultura come quella della Mauritania, una ragazza non si ribella alla famiglia. Per una ragazza già alzare la voce contro la propria madre, come Verida fa, una volta nella vita, è un grande gesto di ribellione, e una madre che dà uno schiaffo alla propria figlia è un gesto enorme. Noi siamo abituati a urlare ed aggredirci, loro sono molto più civili di noi in questo senso. Io volevo che la ribellione di Verida arrivasse però proprio dal cibo, perché il cibo è una cosa potentissima, è una cosa che dovrebbe farti stare bene, in salute. Qui diventa esattamente il contrario. Mi sono messa nei panni di qualcuno che è costretto a mangiare così tanto, che viene svegliato a tutte le ore per mangiare. Già il gesto che la ragazza fa di allentare un po’ il velo dal collo, perché si sta ingrossando, è un grande gesto di ribellione. Mi piace che i miei film assomiglino alla vita, non amo le forzature e le strutture drammatiche complesse che snaturano la verità di una storia”.

Quale sarà il futuro di Flesh Out e quanto è importante presentarlo oggi al Tribeca 2019

“Quando torno adesso in Italia parteciperò al Bif&st giù in Puglia e poi il film uscirà nelle sale italiane e io lo accompagnerò come in un tour. Questo passaggio americano per me è molto Rock & Roll, una cosa pazzesca, che spero possa portare tanta fortuna e tanto riscontro per il futuro del mio film”.

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Tommaso Cartia

Tommaso Cartia

Tommaso Cartia è uno scrittore, giornalista, media specialist e addetto stampa con dieci anni di esperienza nel campo della comunicazione, media, editoria e industria dell'intrattenimento. Fondatore del progetto editoriale The Digital Poet - To Live Dreams, To Dream Of Lives (www.thedigitalpoet.net). Autore del libro Reincarnazione Sentimentale, Edizioni Croce, Italia, 2014.

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