Mi piace l’opera, ma non sono un esperto. Sentivo le mie nonne canticchiare le arie di Verdi e Puccini che erano state le colonne sonore della loro gioventù e avevano rappresentato la loro (ahimè veramente melodrammatica) educazione sentimentale. Ricordo la mia prima opera a sette anni: una esageratissima Aida all’Arena di Verona, con un pullman partito da Bozzolo nel primo pomeriggio con un caldo infernale. Mia mamma, le sue amiche, le signore che sapevano ben loro l’opera, qualche marito annoiato ancora prima di partire e poi noi, una nidiata di bambini scalpitanti attratti più dall’interminabile pic nic sugli scaloni di marmo rosa arroventato dell’Arena che non dallo spettacolo che sarebbe cominciato dopo il tramonto del sole. Nonostante la stanchezza e il torpore digestivo che seguiva l’abbuffata, la storia e la musica pian piano si facevano strada anche in mezzo a noi e pian piano, invece di addormentarci ci facevamo prendere dallo straordinario spettacolo che si andava squadernando sotto i nostri occhi. E così l’opera fu per diversi anni, durante la mia infanzia, un appuntamento annuale condiviso coi miei coetanei ed atteso come un’avventura epica.
Poi per molti anni, niente opera. Si sa… durante l’adolescenza si cerca di uniformarsi e direi che la lirica era l’ultimo genere musicale al quale guardare, a meno che non fosse mediato in chiave parodica dai Queen. Una volta arrivato a Stanford, nel mezzo di un semestre accademico particolarmente impegnativo il nostro professore regala a me e a una collega due biglietti per l’Opera di San Francisco. Super biglietti di platea e ovviamente, da dottorandi squattrinati accettiamo. È Tristan und Isolde di Wagner. La musica è sublime, la storia un po’ inverosimile e di una noia mortale. Alla fine del primo atto, io e la collega ci guardiamo in faccia e praticamente all’unisono proponiamo di svignarcela. Quella non era la ‘mia’ opera: non c’erano le centinaia di comparse, le storie esagerate, ma commoventi, i colpi di scena, e nemmeno le arie che uno, volendo, poteva anche canticchiare sotto la doccia. O ero io che dopo una decina d’anni e un paio di titoli accademici ero diventato più refrattario alla bellezza dell’arte?

A New York, qualche anno dopo cominciò la mia vera scoperta: andavo al Metropolitan e a City Opera tutte le volte che potevo, ma anche per lavoro dovevo occuparmi sempre di più della nostra tradizione lirica e partecipare all’allestimento di mostre, moderare tavole rotonde e presentare concerti. Imparavo molto e condividevo po’ di quello che avevo imparato. E imparavo soprattutto da Fred Plotkin, che da otto anni tiene alla Casa Italiana Zerilli-Marimò una serie di conversazioni sull’opera. In una delle nostre tante chiacchierate musicali rivelai a Fred la mia difficile relazione con Wagner e lui, da vero maestro qual è, mi ha invitato a vedere con lui l’intero ciclo dell’Anello dei Nibelunghi, quattro opere per un totale di più di sedici ore di spettacolo.
Avere Fred come guida in questa impresa e poter contare sull’eccelsa qualità dell’orchestra e dei cantanti del Metropolitan mi ha incoraggiato a intraprendere questa maratona musicale e così ho accolto l’invito come una sfida a me stesso, una sorta di iniziazione in un campo sconosciuto… E in effetti già il pubblico è molto diverso a quello a cui sono abituato per le opere italiane che possono contare su una folla variopinta che va dai melomani dell’Opera Club, sempre rigorosamente in smoking e papillon alle giovani coppie di fidanzati dove si vede che il ragazzo vuole colpire la sua bella con una serata da raccontare e la ragazza si è consultata con una mezza dozzina di amiche per decidere la mise (di solito molto colorata e un po’ sopra le righe). Per Wagner si entra nel teatro e c’è un silenzio irreale: la gente parla poco e se parla, mormora, bisbiglia come se fosse in chiesa. I colori degli abiti sono scuri sia per gli uomini che per le donne. Io mi son messo la cravatta, ma sono in netta minoranza. Fred mi avverte che dalla prima nota all’ultima in sala regnerà il silenzio più assoluto. Anche il rumore di una caramella scartata viene considerato un sacrilegio. Nessun applauso a scena aperta, non come alle opere italiane dove la gente applaude dopo ogni aria nota, anche se l’orchestra sta ancora suonando.
L’introduzione di Fred alla prima opera del ciclo, Das Rheingold (L’oro del Reno) mi aiuta a districarmi nella complessa e un po’ delirante mitologia nordica e il parallelo che Fred stabilisce tra il serio e il faceto fra i personaggi del ciclo wagneriano e quelli della Casa Bianca trumpiana mi affascina, mi diverte e mi aiuta a calare nella realtà contemporanea vicende altrimenti distanti e incomprensibili. Non voglio svelare qui i dettagli del parallelo di Fred anche perché spero di leggere presto un suo articolo pienamente sviluppato nella sua rubrica di opera per WQXR, la stazione radio di musica classica di New York.
Alla seconda opera del ciclo, La Valchiria, devo ammettere che nonostante fossi stato perfettamente istruito su contenuto, motivi guida e strumentazione, dopo il secondo atto (e quattro ore di spettacolo) ho ceduto e, con grande disappunto di Fred me ne sono andato. Mi sono perso così, la famosa cavalcata delle Valchirie, forse uno dei brani classici più noti di tutti i tempi. Tornando a casa, riflettevo sulla mia iniziazione wagneriana, visto che sono circa a metà del percorso. Ho provato la soddisfazione di essere riuscito ad entrare in un mondo che sento tutt’ora come ostico e allo stesso tempo devo rassegnarmi a un fatto molto semplice: anche se arriverò ad apprezzare e godere le opere di Wagner non saranno mai completamente mie. Anche sforzandomi non riuscirò mai ad immedesimarmi in Wothan o Brunhilde, mentre anche senza volerlo finirà sempre che mi sentirò esattamente come il Trovatore, Turiddu, Violetta e persino Mimì.
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