A Cortinametraggio, il Festival dei Corti organizzato da Maddalena Mayneri, abbiamo intervistato Nicola Guaglianone, lo sceneggiatore più ricercato del cinema italiano dopo il successo di Lo chiamavano Jeeg Robot, che ci racconta come nasce l’idea di una storia e il suo rapporto con l’America. Se dovesse avere la possibilità di lavorare con Quentin Tarantino, gli proporrebbe di fare il remake di “Milano calibro 9”.
Sappiamo che sei legato a New York, raccontaci il tuo rapporto con questa città.
“Ho sempre amato molto l’America e poi mio padre era un dirigente degli Aeroporti di Roma quindi noi avevamo la possibilità di viaggiare gratis e abbiamo trascorso molti Natali a New York. Per un ragazzino, piccolo borghese, arrivare in America era la realizzazione di un sogno. Un periodo all’insegna del consumismo totale, erano, infatti, gli anni in cui gli amici ti commissionavo ogni sorta di acquisto da fare a New York. Insomma, rimasi subito folgorato dalla città, mi sono innamorato del cinema americano, ero cresciuto con quell’immaginario cinematografico e mi sembrava, quindi, di conoscere già quei posti”.
Con quale regista americano ti piacerebbe lavorare?
“Sono tanti, ma è Tarantino quello con cui penso mi piacerebbe realizzare un film. Negli anni ’90, all’epoca di TELE Più, trasmettevano tutti quei film di registi che si erano formati alla NYU – Tisch che giravano film in 16mm in bianco e nero. Guardavo quelle pellicole con Gabriele Mainetti, film che raccontavano storie personali: delusioni d’amore, quel percorso ad ostacoli per diventare adulto, storie intime. Avevamo capito che il cinema poteva essere anche quello e non solo un contenitore di effetti speciali e di azione.
Ad esempio di registi come Tom DiCillo, Alexander Rockwell ma anche Kevin Smith con ‘Clerks’ hanno realizzato film che ci hanno scosso. E’ lì che ci siamo resi conto che per fare dei film potevamo guardare dentro noi stessi e raccontare le cose che ci riguardavano”.
Qual è, dunque, la tua filosofia dietro la scrittura? Ci sono anche la sofferenza, l’amore?
“La scrittura è anche terapeutica, qualcuno ha persino detto che nasce sempre dal desiderio di metamorfosi della realtà. Se le cose non vanno come speravi puoi immaginarle tu in maniera completamente diversa. Quando penso alle storie, qualche volta parto dalle immagini, da una suggestione, dipende dai momenti.
Ad esempio, quando ho scritto il corto ‘Tiger Boy’ per Mainetti, è nato dall’immagine di un bambino con la maschera di una tigre a Tiburtina e mi chiesi perché la indossasse. Poi da lì è venuta la storia, una storia drammatica di abusi”.
L’attualità ti influenza nella scrittura? Anche nei lavori passati, c’è stato qualcosa che ti ha colpito e che hai voluto inserire nelle sceneggiature?
“‘Indivisibili’, ad esempio, nasce perché avevo letto un articolo sul New York Times di un giornalista che aveva vissuto per due settimane con due gemelle siamesi e mi aveva molto colpito il fatto che le due ragazze parlassero al plurale. Non erano in grado, infatti, di dire ‘io’ ma soltanto noi; un discorso sull’identità, dunque, che mi interessava molto”.
Per il film ‘La befana vien di notte’ per la regia di Michele Soavi, come hai lavorato?
“E’ stata Paola Cortellesi a cui è venuta l’idea originale che ho voluto inserire nella sceneggiatura: la rivalità tra il “maschilista” Babbo Natale e la Befana che ha lo svantaggio di essere donna e stare dieci passi indietro a Babbo Natale, nonostante faccia lo stesso lavoro. Anzi, fa un doppio lavoro e consegna regali su una slitta mentre lui viaggia in slitta, è il testimonial di una bibita famosa. Ins insomma un’idea simpatica e originale che ho inserito in sceneggiatura”.
Per quanto riguarda le sceneggiatrici donne, tu hai avuto modo di collaborarci?
“Ho collaborato con Barbara Petronio che è una bravissima sceneggiatrice. E’ importante trovare qualcuno che ‘parli la tua stessa lingua’ e che possa cogliere la tua idea, è utile confrontarsi e lavorare insieme. In Italia credo che ci siano delle bravissime sceneggiatrici come Ludovica Rampoldi, ad esempio. Comunque, non mi piace fare una distinzione tra uomini e donne ma tra è bravo e chi non è bravo. Quindi se mi trovassi a scegliere delle persone per un gruppo di scrittura, lo farei in base al talento”.
Tornando a New York, che storia ti piacerebbe ambientare lì e se dovessi lavorare per Tarantino, che sceneggiatura scriveresti per lui?
“Non mi sento di suggerire nulla a Tarantino, gli direi di prendere il suo mondo e di trasportarlo in una mia scrittura. Nel cinema, normalmente, i dialoghi sono sempre molto brevi e devono portare avanti l’azione, nella vita quotidiana, invece, sono spesso molto lunghi e qualche volta anche molto inutili. Tarantino è riuscito a portare sul grande schermo i dialoghi del reale. Se fosse qui a Cortina, gli direi per esempio: visto che qui c’è Barba Bouchet, perché non facciamo un remake di ‘Milano Calibro 9’ (sorride n.d.r.)”.
Ma c’è qualche luogo di New York che ti ha colpito in maniera eclatante? Un luogo che hai visto per la prima volta e ti ha emozionato?
“Mi ricordo che la prima volta che sono stato a New York, nel ’90, andammo a casa di un signore che lavorava nei terreni di mia nonna in Italia prima di trasferirsi in America. Ci invitò a pranzo e mi ricordo la loro casa, con i divani ancora ricoperti con il cellophane, i quadri con Venezia ritratta, un pranzo con prodotti italiani, e quando parlavano in italiano avevano un accento calabrese e usavano parole degli anni ’40. Rimasi molto colpito da tutto questo, erano riusciti a costruire un micro cosmo, una little Italy a Brooklyn. Erano arrivati lì negli anni ’50 in un mondo così lontano, distante. Come tutti i migranti, ci vuole molto coraggio a lasciare la propria terra per andare incontro ad un futuro incerto.
Ma ricordo anche quando nel ’99 mi trasferii a Los Angeles perché avevo una ragazza americana e nonostante non avessi problemi economici, i primi mesi è stata dura. Quando si pensa all’immigrazione viene in mente l’immagine di qualcuno che si sposta per andare a trovare lavoro e invece c’è tutto un mondo che si lascia, ci sono i dolori e le mancanze e in quel salotto, nel ’90, avevo percepito quel dolore e quei ricordi del passato e me li sono portati dietro”.
Si parla spesso della difficoltà del cinema italiano di approdare all’estero. In America sopravvivono ancora i grandi autori del passato.
“Il cinema italiano all’estero non ha ancora un’identità, al contrario delle serie televisive. Tornando sceneggiatrici donne, ad esempio, Barbara Petronio ha dato un’identità alle serie televisive italiane. Tuttavia c’è un’ondata di nuovi registi che stanno proponendo storie universali, deostruendo quegli archetipi che impediscono ai film di essere venduti all’estero. Tra i giovani registi, apprezzo Jonas Carpignano che, a mio parere, è il nuovo Garrone per quella sua capacità di entrare intimamente nel mondo dei suoi personaggi che hai la sensazione di vivere con loro”.