Cosa hanno in comune una dozzina di detenuti del carcere di massima sicurezza MacDougall-Walker nel Connecticut appaiati a una dozzina di studenti di teologia di Yale, 140 ragazzini di Kibera, il più grande slum dell’Africa, alla periferia di Nairobi, e un migliaio di cittadini di Ravenna? Hanno in comune di essere riusciti a realizzare un’impresa ai limiti dell’impossibile: hanno portato in scena la Divina Commedia di Dante in posti così lontani e diversi, trasformando in rappresentazione teatrale il poema per eccellenza.

A partire dagli anni ’60 nelle università americane cominciò da parte di studenti e professori la protesta contro i cosiddetti ‘maschi bianchi morti’ che dominavano in maniera esclusiva il curriculum di tutte le discipline. Da quegli anni, alcuni sono stati mandati in pensione e qualche donna, insieme a qualche esponente di minoranze etniche o di genere, è riuscita ad entrare a fatica nel canone letterario e artistico. Ma un nome non è mai stato messo in discussione: quello di Dante. E così, anche nelle università più piccole dove non c’è nemmeno un docente di letteratura italiana, un corso sulla Commedia si trova comunque.
In Italia, nemmeno la scuola sembra sia riuscita a rendere odioso Dante a generazioni di studenti, nonostante abbia fatto di tutto per presentarlo, in maniera limitativa, alternativamente come poeta teologo o come poeta nazionale. Dante è riuscito persino a sopravvivere ai dantisti delle università. A Firenze ce n’era uno che si vantava di dedicare un intero corso alla spiegazione di una terzina: un’operazione di una pedanteria filologica tale da smontare la passione del lettore più entusiasta.
E così Dante, che è sopravvissuto alle femministe americane e ai filologi italiani, trova sempre nuova vita fuori dalle aule scolastiche, soprattutto in questi anni che portano al settimo centenario dalla sua morte (2021). Una vita teatrale, anche se lontana dai palchi dei teatri tradizionali, in cui i versi originali della Commedia si intrecciano con riscritture che testimoniano l’universalità del suo viaggio ultraterreno.
Da anni Ron Jenkins, docente di teatro a Yale e a Wesleyan, offre corsi in cui detenuti vengono appaiati a studenti e insieme, senza incontrarsi di persona, lavorano a una riscrittura della Commedia che parte dalle esperienze personali dei carcerati. I versi di Dante, che fu a sua volta imputato e condannato a morte in contumacia, non potrebbero trovare lettori più attenti e ricettivi e il suo percorso di cambiamento e conversione diventa per loro un programma di vita.

Ermanna Montanari e Marco Martinelli, cuore e anima del Teatro delle Albe, una delle più innovative e importanti compagnie italiane, durante un recente tour a New York, hanno parlato del loro “Cantiere Dante”. L’iniziativa, che fa parte del Ravenna Festival ha visto l’estate scorsa la partecipazione di un migliaio di cittadini/attori che, per oltre un mese, sono stati attivamente coinvolti alla performance itinerante che si è snodata dalla tomba di Dante per strade, piazze e chiese della città che lo accolse e ne custodisce i resti.
Marco Martinelli ha anche portato questa esperienza agli ideali antipodi di Ravenna, nello slum di Kibera, in Kenia, dove i ragazzi con cui ha lavorato non avevano, ovviamente, mai sentito parlare di Dante e della sua Commedia. Ma quando Marco ha cominciato a raccontare la storia di Dante: “C’è un uomo solo, in una foresta, si è perso e ha paura; sente arrivare tre bestie feroci…” i ragazzi di Kibera l’hanno interrotto e gli hanno detto: “Questa la conosciamo: è la nostra storia!”. E così è cominciata una rilettura della Commedia alla luce della loro esperienza. E questa performance è diventata una grande processione che ha coinvolto l’intera baraccopoli. Anche a Kibera oggi, come a Firenze nel ‘300, chi si ritrova nella selva oscura vuole uscire a riveder le stelle.

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