Quando si tratta di ciclismo, si può ragionevolmente parlare di un’era pre Lance Armstrong e di un’era post Lance Armstrong. Di certo dal punto di vista cinematografico. Dopo il caso che scosse l’America e il mondo intero, le pellicole sulla sua storia e sull’uso del doping nel ciclismo, si sono moltiplicate — La caduta di Armstrong, La grande bugia, L’inganno di Armstrong, Stop at Nothing, The Program — fino a giungere addirittura all’Oscar lo scorso anno con Icarus, di Bryan Fogel, che Il Post ha giustamente definito come “uno dei resoconti più completi e accurati sullo scandalo che ha portato alla storica esclusione della Russia dalle ultime Olimpiadi”.
Oggi, quando si parla di ciclismo, la mente dell’italiano medio — quello che cambia canale quando vede il Giro d’Italia occupare il palinsesto televisivo — scatta subito verso il lato nero del ciclismo. Quello fatto di iniezioni, urine trafugate, ematocrito sballato. Quello che, nel 1999, riempì la bocca di Nandrolone a tutti gli italiani quando tracce dello steroide furono trovate nel sangue di Marco Pantani, lo sventurato, mai dimenticato, pirata del ciclismo moderno.
Il regista Arunas Matelis ha detto no con fermezza a questo approccio monodimensionale, che incastra uno sport nobile come il ciclismo in unico fermo immagine, quello dell’oscuro e dell’imbroglio, senza invece mettere in luce i lati alti di questa disciplina, come per esempio il ruolo del gregario all’interno di una squadra.
Tutti in Italia sappiamo benissimo cos’è il gregario, anche chi non bazzica molto le due ruote o il Giro d’Italia. E anche in Francia, dove è chiamato “domestique”; mentre in inglese — nella cultura inglese — dobbiamo ricorrere a un goffo “gregarious”, o a un ben poco incisivo “watercarriers” per descriverne la figura, pressoché sconosciuta.
Il gregario sta al ciclismo come il mediano sta al calcio. E se al mediano e alla sua vita, Ligabue aveva dedicato un singolo di successo nel 1999, al gregario nessuno, finora, aveva mai rivolto attenzione document-artistica. Perché nessuno bada all’atleta che fa il lavoro di fatica, che trasporta borracce e panini ai compagni, che pensa a come far arrivare il cavallo di razza del proprio team al traguardo. Tutti pensano a loro, i Froome, i Quintana, i Contador, i Nibali che si sono avvicendati negli ultimi anni — ai Coppi, i Bartali, gli Indurain, i Moser, se si guarda alla storia. I Daniele Colli, i Paolo Tiralongo, i Jetse Bol non salgono sul podio, non finiscono sotto la doccia dorata dello spumante a fine gara. Per loro l’anonimato e tanto sudore, testa bassa e avanti.
Dopo aver conquistato ben otto riconoscimenti in vari festival europei — due fra tutti, Miglior Documentario al Varsavia Film Festival 2017 e al Trieste Film Festival 2018 — il regista lituano ha portato Wonderful Losers a New York, alla prima edizione del Baltic Film Festival, una tre-giorni dedicata al cinema di provenienza nord-europea svoltasi questo weekend (18-21 ottobre) presso la Scandinavia House — oltre a essere un centro culturale sempre ricco di eventi, la Scandinavia House è anche uno splendido edificio d’interesse architettonico che merita una visita, se ci si trova su Park Avenue, all’altezza della 38esima Strada.
Wonderful Losers è il frutto di uno sforzo co-produttivo di otto paesi: Lituania, Lettonia, Belgio, Svizzera, Irlanda del Nord (UK), Irlanda, Spagna e Italia, con Stefilm. L’Italia, massicciamente presente anche grazie al contributo di ben quattro Film Commission: la Trentino Film Commission, il Piemonte Doc Film Fund – Fondo Regionale per il documentario, la Film Commission del Friuli Venezia Giulia e la Film Commission della regione Puglia. Grazie anche al lavoro di coordinamento sul campo di GiUMa Productions durante le riprese del Giro d’Italia.
Di solito le co-produzioni si limitano a tre-quattro mani. Metterne insieme otto e portare a termine un progetto complesso sin dall’inizio non è stata un’operazione facile, come ribadisce Matelis nel Q&A dopo la proiezione. “Abbiamo battagliato cinque anni per ottenere le autorizzazioni necessarie per girare. L’ultima volta che furono concesse per realizzare un documentario sul Giro d’Italia risale al 1973”, commenta il regista, riferendosi a Stars and Watercarriers del danese Jorgen Leth. “Abbiamo iniziato con un anno di riprese, ma abbiamo capito che avevamo bisogno di più tempo, e gli anni sono diventati due”.
Uno sforzo anche dal punto di vista del montaggio, che ha richiesto la collaborazione di un nuovo montatore in fase di editing. Insomma, molta fatica, impegno e dedizione, un po’ come il lavoro stesso del gregario, il Sisifo del ciclismo, che deve trovare la ragion d’essere della propria missione oltre la vittoria. “L’essenza del ciclismo è trovare la felicità nel sacrifico. E questo riguarda da vicino il ruolo dei gregari, che sanno di non poter ambire al traguardo”, aggiunge Matelis, facendo sorridere il pubblico quando parla della sua giovinezza da ciclista definendosi egli stesso un gregario, “un vero perdente”. “Inoltre questo sport, e il ruolo stesso del gregario, sono una metafora della vita, che si può applicare a qualsiasi settore. Il talento, l’impegno, il sacrificio, non sono messi al servizio del proprio successo ma di quello della propria squadra: lo scopo è quello di sacrificarsi senza ricercare il riconoscimento. E questo parla molto anche della nostra società, dove vi sono leader che comandano e hanno successo e collaboratori il cui lavoro non viene visto e riconosciuto”.
In Wonderful Losers il gregario viene definito “perdente di lavoro”. Ma l’approccio registico non prevede nessun pietismo nei loro confronti — una deriva che
sarebbe stato molto facile prendere. La sua figura assume, piuttosto, i contorni di un piccolo eroe della strada, con una tempra di acciaio e un grandissimo senso di abnegazione.
Il documentario ci permette anche di riconoscere il lavoro dello staff medico che soccorre i ciclisti
durante le cadute e che spesso hanno a che fare con atleti il cui senso del dovere è talmente radicato da mentire su dolore e ferite pur di arrivare alla fine.
In una società che punta i riflettori sul vincitore — il centro — abbiamo sempre più bisogno di luci che invece illuminino l’ombra — il margine — e cineprese pronte a esplorarli. È lì che molto spesso trionfano la disciplina, la fatica, e i meravigliosi perdenti che rendono possibili le grande imprese della vita.