È arrivato il momento dei verdetti al festival di Cannes, edizione 71. Ad aggiudicarsi la Palma d’oro è il giapponese Hirokazu Kore-eda con il bellissimo “Shoplifters”, ma il palmares parla anche italiano: Marcellino Fonte vince il premio come miglior attore per la splendida perfomance in “Dogman” di Matteo Garrone, mentre “Lazzaro felice” di Alice Rohrwacher si aggiudica il premio per la migliore sceneggiatura. A “BlackKklansman” di Spike Lee il Gran premio della giuria, il secondo premio. Al di là dei riconoscimenti che la giuria presieduta da Cate Blanchett ha distribuito questa sera, è il momento per tracciare un bilancio della 71a edizione del Festival del cinema di Cannes.

Va detto che quella che va in archivio è stata una rassegna di buon livello, con poco glamour e pochissima Hollywood (con l’eccezione del pessimo “Solo – A Star Wars Story”) e tanto buon cinema, talvolta anche inaspettato. L’impressione è che lo scorso anno si sia toccato il fondo con una delle peggiori e più confuse edizioni degli ultimi tempi e che con le scelte, anche radicali (vedi l’esclusione dei film Netflix dal concorso) compiute quest’anno, nella direzione di un ricambio generazionale, sia iniziato un nuovo corso. Due soli americani in competizione, il giovane David Robert Mitchell con “Under the Silver Lake” e il redivivo Spike Lee, e un equilibrio perfetto tra grandi maestri del cinema d’autore e giovani registi.
Complessivamente, la selezione approntata dallo staff di Thierry Fremaux è apparsa segnata da una decisa impronta politica. Contro i rigurgiti liberticidi che ribollono nel mondo si sono schierati più o meno apertamente diversi autori: Kirill Serbrennikov e “Leto”, il suo film anti-Putin; Jafar Panahi e il suo “Three Faces”, girato clandestinamente in Iran, paese da cui il regista non può uscire per motivi politici; Pawel Pawlikowski, polacco premio Oscar per “Ida”, con la storia d’amore “Cold War”, attraversata da passioni minacciate tanto dalla cortina di ferro che dal capitalismo piccolo-borghese; infine Spike Lee, che non le ha mandate a dire al presidente Trump, da lui definito motherfucker in conferenza stampa, con un film, “BlackKklansman”, che piccona il razzismo dei bianchi suprematisti, zoccolo duro dell’elettorato di “The Donald”.
L’altra linea tematica molto forte è stata quella rappresentata dai film che, in qualche modo, cantano la sofferenza e la drammatica poesia della lotta continua degli ultimi del mondo; ignorato dal palmares è stato “En guerre” di Brizè, che pure è un solidissimo film sul mondo del lavoro, il precariato e la dialettica tra azienda e operai; “Capharnaüm”, della regista libanese Nadine Labaki, si è aggiudicato il premio della giuria, raccontando – va detto, in modo talvolta un po’ ricattatorio – la vicenda di alcuni bambini abbandonati nelle baraccopoli di Beirut. Il film che in modo più riuscito, poetico e convincente ha saputo raccontare la quotidianità di chi sta ai margini del mondo è però senza alcun dubbio il vincitore “Shoplifters” del giapponese Hirokazu Kore-eda.
Una famiglia particolare

Un nucleo familiare “abbondante”, all’apparenza tradizionale, che sopporta l’indigenza con il calore degli affetti. Questo sembra, all’inizio, “Shoplifters”; poi, si apre a una prospettiva completamente diversa: i legami tra i personaggi, che si svelano progressivamente, non sono ciò che sembrano e l’attività “lavorativa” che sostiene la quotidianità della famiglia è in realtà quella di piccoli crimini e piccoli furti. In questo contesto, arriva una bimba, trovata per strada, fuggita da genitori borghesi che la maltrattavano: viene così “adottata” dalla singolare famiglia, in quello che a tutti gli effetti, per la legge si configura come un rapimento e che in realtà è per loro un atto d’amore. Con una leggerezza di tocco fuori dal comune e un’ispirazione addirittura superiore a quella di “Father and Son” (2013), il regista giapponese ci invita a riflettere su quali siano i legami che realmente determinano la costruzione di una famiglia, se quelli biologici o quelli affettivi, e dipinge con poesia struggente la lotta per la sopravvivenza e per la dignità di questo nucleo di emarginati, fino a un finale potente e delicato. Per una volta possiamo dire che la giuria ha azzeccato il premio più importante: Palma d’oro meritatissima per uno dei film migliori del concorso.
L’Italia sulla Croisette
L’Italia ha presentato in concorso due ottimi film. Del primo abbiamo già parlato: “Lazzaro Felice” di Alice Rohrwacher si è aggiudicato il premio per la migliore sceneggiatura, è un film molto bello e si inserisce perfettamente, con il suo “realismo magico”, nel tema generale del racconto “degli ultimi”.
Stessa cosa, seppur con toni diversi, per il secondo, “Dogman” di Matteo Garrone, che ha portato al suo attore protagonista, Marcello Fonte, il premio come migliore attore della competizione. Garrone, che ormai può essere considerato, in questo momento, a tutti gli effetti l’autore di punta del cinema italiano, avrebbe meritato anche qualcosa di più; il regista romano impugna la storia del “canaro della Magliana”, emersa alla ribalta della cronaca nel 1988, la scarnifica di (quasi) tutti gli aspetti truculenti, la riduce all’essenziale e ne trae un film magistrale e paradigmatico sulla solitudine e sulla violenza. “Dogman” è probabilmente il film più riuscito della carriera di Garrone, che pure ha nella sua filmografia titoli molto importanti e pluripremiati, come “Gomorra” e “Reality” (che hanno vinto a Cannes il Gran Prix speciale della giuria) o come “L’imbalsamatore” e “Primo amore”. Il settimo lungometraggio del regista romano sembra però avere un equilibrio e una compattezza quasi perfetti, un testo rigoroso, teso e asciutto in cui è impossibile trovare un singolo elemento fuori posto.

L’elemento che colpisce maggiormente in “Dogman” è l’ambientazione della storia. Garrone ha scelto il villaggio Pinetamare di Castel Volturno, noto anche come Villaggio Coppola, dal cognome dei due palazzinari che costruirono questo ecomostro negli anni ‘60. Ritratto magnificamente dal direttore della fotografia Nicolai Brüel, lo scenario di “Dogman” è uno degli impianti scenici visti di recente che maggiormente richiamano l’inferno, una landa brulla, grigia e spenta che sembra uscita da un immaginario postapocalittico.
Dentro e fuori dal palmares

Completano il palmares la Camera d’or per la migliore opera prima a “Girl”, che era nel “Concorso 2”, Un Certain Regard, vinto dal bellissimo “Border”, horror di produzione svedese girato dall’iraniano Ali Abbasi; il discutibile premio alla migliore attrice a Samal Yeslyamova per il russo “Ayka”; la palma d’oro speciale a “Le livre d’image” di Jean-Luc Godard, un collage di immagini e suoni con cui il maestro della Nouvelle Vague riflette sul potere suggestivo della comunicazione visiva e sul legame che essa istituisce con politica e religione. Un testo a tratti affascinante, a tratti confuso, quasi sempre datato, che proprio per la sua natura anacronistica non riesce a diventare fino in fondo una riflessione teorica compiuta sul cinema e il suo statuto.

Chiudiamo citando un film che è stato sorprendentemente dimenticato dalla giuria. Si tratta del coreano “Burning”, di Lee Chang-dong, un bellissimo mélo ambientato tra Seul e le campagne circostanti, un ménage à trois con delitto tratto da un racconto breve di Murakami.
A parere di chi scrive è il film più bello del concorso, girato magnificamente, inquietante, teso, segna il ritorno dietro alla macchina da presa di un maestro come Lee a 8 anni dal bellissimo “Poetry”.
Verrebbe da dire che mentre “Capharnaüm” di Nadine Labaki è il film che non avrebbe meritato di essere tra i premiati, “Burning” è l’escluso che avrebbe meritato di esserci.
A fine cerimonia, Sting canta sul red carpet.
L’appuntamento per tutti sulla Croisette è al 15 maggio 2019.