Mimmo Mancini, pugliese di origine ma con tre quarti di famiglia residente in New Jersey, sorelle e madre, vanta tra i suoi antenati anche uno dei pionieri italiani della traversata atlantica. Non immaginava certo che a distanza di quasi un secolo, il suo film Ameluk sarebbe approdato al NoHu International Film Festival per parlare e sorridere di uno dei temi più controversi anche dell’America sotto Trump: il rapporto con gli stranieri e soprattutto con i musulmani. Sabato 8 aprile la pellicola sarà presentata in anteprima per gli USA e con ingresso gratuito al Performing Arts Center di Union City, alle 7PM.
In attesa di questo appuntamento abbiamo fatto una chiacchierata con il regista. “Il film — ci ha spiegato — è ambientato in un piccolo paese pugliese, dove durante la processione del Venerdì santo, l’attore che doveva interpretare Gesù subisce un incidente e un giovane musulmano viene chiamato a sostituirlo sulla scena. Il fatto scatena le reazioni più impensate e nel microcosmo di questo comune si fotografa una delle realtà più scottanti non solo per l’Europa ma anche per la grande America”.
Come è nata la tappa americana di Ameluk?
“Da un incontro con il montaggista Mauro Di Prizzo. Quando nel 2011 ero venuto negli States avevo in mente di girare un promo su Ameluk e mi ero portato dietro scene di processioni, le musiche delle bande, tante immagini del paese. Mauro nel 2015 ha iscritto a mia insaputa il mio corto sulla disabilità U sù al Nord Hudson Film Festival e ho vinto, a sorpresa, il premio come miglior film e miglior attore. Il direttore artistico Lucio Fernandez è rimasto colpito sia dal corto che dall’interpretazione e mi ha voluto conoscere e ha soprattutto ha voluto che Ameluk venisse proiettato in una serata legata al festival, anche perché un film del genere sembra scritto proprio per gli USA dopo le elezioni di Trump. Tutto nasce per caso ma mai nulla è a caso nella mia vita e nella mia carriera”.
Il promo è stato girato a New York, ma cosa ha ispirato Ameluk?
“Bitonto in Puglia e proprio Time Square. Una sera d’estate, a Bitonto, ero rimasto colpito dagli amici tunisini dei miei cugini: stavano con loro perfettamente integrati, parlavano il dialetto, erano parte del paese. Poi ho visto la processione di sant’Isidoro, un santo senza grandi cortei e i miei cugini erano tra i portatori. Mi sono chiesto cosa sarebbe successo se uno di loro avesse avuto un incidente e avesse chiesto aiuto agli amici tunisini. Un musulmano che portava a spalla una statua cristiana era davvero un soggetto interessante”.
E Time Square?
“Ero in vacanza nel 2011 con mio figlio ma con il pensiero all’Italia e al mio lavoro al rientro. Mentre ero a Time Square circondato da gente di tutto il mondo, ho avuto l’intuizione di domandare ai tanti turisti, e non solo a loro, cosa avrebbero pensato se in un film la figura di Gesù fosse stata interpretata da un musulmano. Ho ricevuto risposte favorevoli, contrarie, critiche, indisponenti e ho capito che il mio film sarebbe stato attuale, toccava dei nervi scoperti. E lì ho deciso che avrei girato Ameluk”.
Un film profetico, visionario, anticipatore. Come lo definiresti?
“Anzitutto direi che è un film onesto e sincero, proprio come è stato riconosciuto al festival di Termoli quando ho ricevuto un premio come autore ‘onesto e sincero’. Mi brillano ancora gli occhi al pensiero. Il razzismo, la discriminazione sono temi scottanti e avrei potuto calcare la mano, includendovi anche l’aspetto religioso e invece ho scelto di far vedere la sceneggiatura al rabbino della sinagoga di Roma, Riccardo Di Segni, all’allora presidente delle comunità islamiche italiane, a don Gallo, il sacerdote di Genova che ha sempre portato novità alla vita della chiesa cattolica. Anzi volevo che lui stesso interpretasse il prete ma si sentiva anziano. Mi serviva il confronto con le tre religioni monoteiste perché non cercavo lo scandalo o la provocazione ma voglio far riflettere con un sorriso”.
Anche quando si parla di terrorismo?
“La scena del film in cui io parlo di terrorismo è stata girata nel 2013 quando alla parola non era legata la stessa valenza e il peso che gli diamo oggi. Allora la pronunciavamo quasi ignari e invece abbiamo colto un po’ di futuro. La mia tecnica di recitazione e regia consiste nell’inserire dolce e amaro e unire un argomento faticoso, pieno di trappole e rischioso a qualcosa di leggero in grado però di mantenere la profondità. Io cerco di replicare quello che accade nella vita dove un occhio ride e uno piange”.
Cosa ti ha divertito o emozionato di più girando questo film?
“La disponibilità di tutti quelli che sono stati coinvolti nella realizzazione perché il mio è un film low budget, indipendente da tutto per obbligo e non solo per scelta e più che un film è un progetto e un manifesto di incontro delle culture. Per usare le parole di un vescovo di Bitonto, don Tonino Bello, è una convivialità di differenze. Quando ho raccontato soggetto e storia ho avuto un’adesione totale delle persone e degli attori che hanno preso paghe bassissime che non avrebbero accettato in altra situazione, ma hanno creduto con me al racconto”.
Nel film hai interpretato il sindaco razzista. A chi ti sei ispirato?
“Io non mi sono ispirato a Silvio Berlusconi, allora presidente del consiglio, perché l’ironia facile non mi è mai piaciuta, soprattutto quando sfocia in sarcasmo e offende le persone. I personaggi sovraesposti come Berlusconi o Trump rischiano di diventare banali. Io ho invece cercato di indagare il DNA dell’italiano medio che vive di regionalismi, di furberie e che per i propri interessi non esita a speculare persino sulla religione. Questo però è un problema che valica le frontiere, che cambia pelle e colore e interessa chiunque ha come fede il dollaro o l’euro, non riguarda solo i politici ma anche gli industriali che ad esempio inquinano e creano problemi per le future generazioni non rispondendo di nulla e magari presentandosi come persone perbene. Il sindaco è il ritratto di chi si fa gli affari suoi sulle spalle della povera gente. Temevo che il mio film diventasse datato con il tempo e invece è una straordinaria sorpresa notare quanto sia attuale”.
Che messaggio pensi lascerà Ameluk agli americani?
“Sono curioso di vedere la reazione del pubblico e mi auguro che siano in tanti a venire sabato, perché questa problematica è raccontata nel micro contesto di un Paese del Sud ma riguarda tutti e riguarda soprattutto le frontiere e le distinzioni che anche in questo contesto sono presenti e portano emarginazione fisica, intellettuale, razziale, sessuale. Vorrei che il film servisse ad avere uno sguardo sincero sull’oggi di questa grande nazione”.
Guarda il trailer di Ameluk: