Forse non tutti sanno che nel 1787 Thomas Jefferson, il terzo presidente degli Stati Uniti d’America, all’epoca ambasciatore a Parigi, intraprese un tour della durata di circa venti giorni (dal 14 aprile al 2 maggio) alla volta del Nord Italia, visitando le città di Torino, Milano e Genova. La sua esperienza è documentata in modo dettagliato in molte lettere e diari di viaggio, in cui sono raccolti i suoi appunti su vigneti, campi di riso, tecniche di produzione, clima e stile di vita degli abitanti di ciascuna località.
Sebbene appassionato di arte e cultura del nostro paese, dedicò a questo aspetto solo poche annotazioni, probabilmente perché tra le tappe del suo itinerario non era prevista Roma per problemi di distanza, così come Verona, Venezia e Vicenza, dove avrebbe potuto ammirare le straordinarie opere di Andrea Palladio, diventato qualche anno più tardi un’essenziale fonte di ispirazione per la realizzazione delle sue opere architettoniche. Milano, tuttavia, fu la città che più di tutte lo colpì per gli affreschi di Casa Roma, Casa Candiani e Casa Belgioioso, tra le sue preferite. Quest’ultima, in particolare, fu elogiata da Jefferson non solo per il suo salone, superiore a qualunque cosa egli avesse mai visto prima, ma anche per le pareti e i pavimenti Scaiola.


Tuttavia, Palladio rimase la sua maggiore fonte di ispirazione, in quanto architetto della democrazia e della libertà individuale al servizio della Serenissima, unica repubblica tra le tante monarchie del Vecchio Mondo. Il suo stile, inoltre, si conciliava perfettamente con la ricerca della felicità sancita dalla Dichiarazione di Indipendenza. Palladiano e neoclassicista, Jefferson adottò I Quattro Libri dell’Architettura come una vera e propria Bibbia da cui trarre spunto per realizzare in Virginia una serie di residenze di campagna, tra cui Monticello, la più nota in America dopo la Casa Bianca. Quest’ultima, costruita secondo il disegno iniziale di James Hoban, fu modificata da Jefferson durante il suo doppio mandato presidenziale, aggiungendo gli inconfondibili elementi palladiani come il pronao col colonnato e le “ali”. Con il progetto del Campidoglio di Richmond stabilì poi le forme degli edifici del potere civile americano, ma il suo vero capolavoro fu l’Università della Virginia, ovvero il primo campus della storia con una biblioteca a forma di Pantheon e un enorme giardino su cui si affacciavano le residenze di docenti e studenti.
Per celebrare il legame tra Jefferson e l’Italia, Casa Italiana Zerilli-Marimò ospita fino al 18 aprile la mostra Thomas Jefferson – An Italian President, inaugurata lo scorso 23 marzo alla presenza del direttore Stefano Albertini, della curatrice Maria Cristina Loi del Politecnico di Milano e dell’attore Miles Jackson, studente della NYU Tisch School of the Arts, che ha letto alcuni passi tratti dai diari di viaggio del presidente.
“Generalmente presentiamo mostre che provengono da altre collezioni e fondazioni, ma questo è un progetto originariamente concepito, elaborato e preparato per noi da Maria Cristina Loi – ha dichiarato Albertini – È stato proprio durante uno dei nostri incontri che lei mi ha parlato delle sue conoscenze di Jefferson come progettista e architetto. Ho subito pensato che la sua storia potesse essere presentata al pubblico in maniera visiva e accattivante. Il risultato è stato questa meravigliosa iniziativa”.
L’esposizione multimediale, per cui Loi si è avvalsa della collaborazione di Veronica Rigonat dell’Università di Mantova, intende proprio offrire un’interpretazione del rapporto tra Thomas Jefferson e l’Italia da una duplice prospettiva: da un lato, un paese capace di ispirarlo grazie all’architettura classica, considerata da lui eterna e universale, che ebbe modo di conoscere attraverso le tavole del Palladio e altre fonti dalla sua ricca biblioteca; dall’altro, un paese che lo ispirò grazie ai suoi meravigliosi paesaggi nella creazione dell’America rurale che aveva sempre sognato.
“Non possiamo pensare a Thomas Jefferson escludendo gli altri aspetti che hanno caratterizzato la sua vita – ha affermato Loi – Fu un uomo di legge e di cultura, con una forte educazione alle spalle, alquanto insolita per l’epoca, e possedeva una delle biblioteche più ricche degli Stati Uniti”. Conteneva, infatti, 6.500 volumi, archiviati secondo le tre categorie della classificazione baconiana del sapere: memoria, ragione e immaginazione, corrispondenti a discipline come storia, filosofia e arte. Del resto, Jefferson era convinto dell’importanza del ruolo dei libri nella creazione e nella crescita della sua nazione, perché solo attraverso lo studio e la lettura è possibile ottenere il diritto inalienabile alla libertà e alla felicità. Loi ha poi raccontato quanto Jefferson amasse l’Italia e quanto fosse allo stesso tempo profondamente inamorato della Virginia: “Era molto critico nei confronti del Vecchio Continente e di ciò che aveva potuto osservare durante il suo viaggio in Italia, come la qualità di vita e la pericolosità delle sue città. Il suo obiettivo era quello di trarre il meglio da quella esperienza, per poi adattarlo alle migliori condizioni di vita del paese di cui era originario”.