Oltre 300 film divisi in una quindicina di sezioni e proiettati nell’arco di dieci giorni (dal 9 al 19 febbraio) in 36 sale sparse per la capitale tedesca. Questa è la Berlinale, il più incatalogabile dei grandi festival del cinema, e l’edizione del 2017 pone, al solito, appassionati e addetti ai lavori davanti al vano sforzo di individuare un filo conduttore o un comune denominatore estetico, tematico o produttivo nel menù colossale che le rassegna propone. Qui stanno il fascino e anche la difficoltà del festival di Berlino: la frustrazione iniziale davanti alla quasi impossibilità di preimpostarsi un piano razionale di visioni viene ampiamente e puntualmente compensata dalla bellezza di rintracciare in itinere percorsi insoliti e di ricomporre i pezzi di un mosaico che dice molto non solo del cinema, ma del mondo intero e delle sue temperature.

In questo orizzonte sconfinato ci sono anche quest’anno dei punti fermi: nella selezione principale ci sono due attesi “colossi”, come Logan, l’ultima volta di Hugh Jackman nei panni di Wolverine, e Trainspotting 2 di Danny Boyle. C’è però anche molto cinema d’autore, con graditi ritorni di autori come Aki Kaursimaki (The Other Side of Hope), Hong Sang-soo (On the Beach at Night Alone), Volker Schlöndorff (Return to Montauk) o Agnieszka Holland (Spoor). Si ripresentano anche registi che attendono da tempo una consacrazione definitiva, come Sally Potter, che risponde con The Party, Oren Moverman con il suo inquietante convivio The Dinner (con Richard Gere, tratto da La cena di Herman Koch) e Álex de la Iglesia con lo humour nero El bar.
Le sorprese più interessanti vengono dalla sezione Panorama, nella quale c’è anche l’unico scampolo d’Italia: Call me by your Name di Luca Guadagnino, trasposizione del romanzo Chiamami col tuo nome di André Aicman, accolto con grande entusiasmo al Sundance. Accanto a Guadagnino e molte potenziali, graditissime scoperte, una particolare attenzione meritano i documentari I Am Not Your Negro — candidato all’Oscar — e Casting di Philippe Van Leeuw, e il canadese Bruce LaBruce, con due lavori come il grottesco The Misandrist e lo sperimentale Ulrike’s Brain, quest’ultimo però nella sezione Forum. Proprio questa sezione è quella deputata al cinema sperimentale ed è sempre una miniera di sensazioni e di rivelazioni: tra i nomi già noti al pubblico newyorchese segnaliamo Golden Exits di Alex Ross Perry.
Ottime e abbondanti, come sempre, le retrospettive: l’omaggio a Milena Canonero riporta sul grande schermo Barry Lyndon e Dick Tracy, mentre Future Imperfect ci regala interessanti scampoli di fantascienza utopici (pochi) e distopici (molti) scelti tra titoli che hanno fatto la storia del genere.
Il sipario si è alzato: nei prossimi giorni racconteremo il meglio dalla Berlinale, live su Twitter e naturalmente su queste pagine.