Ogni tanto New York è ancora quella New York che ho conosciuto vent’anni fa. Serate a data unica in un teatrino del Lower East Side in cui si incontrano talenti incredibili insieme a spettacoli a dir poco imbarazzanti. Grazie ad una splendida ballerina e coreografa romana che per anni ha lavorato a New York, Benedetta Capanna, ho assistito ad una serata fatta di brani di coreografie al Dixon Space, un doppio spazio, bar sopra e teatro sotto, su Chrystie Street. Da 30 anni il Dixon presenta sperimentazione artistica, spesso in progress. Il suo palcoscenico si apre insomma all’informe che sta prendendo forma, ai primi passi e alle prime idee dell’artista e a volte anche a spettacoli finiti che vogliono provarsi davanti ad un pubblico aperto e che si nutre d’arte. I brani della serata sono stati tutti molto belli, tranne uno chiamato Horsepower che non ha convinto il pubblico intero, almeno a giudicare dal tiepido applauso. Benedetta Capanna, invece, ha presentato un brano della coreografia dedicata a sua nonna, proveniente dalla Lettonia, già prima ballerina a Riga e poi prima ballerina e etoile all’Opera di Roma.
Lo spettacolo si intitola Saknes, radici – A Mirdza Kalnins, mia nonna. È una produzione 2016 Associazione Culturale Excursus Onlus Progetto in residenza Tersicorea Off/Cagliari – Monografie d’autore 2016
La sinopsi spiega — in versi, perché Capanna è anche una poetessa — l’approccio della coreografa: “Tra ombra e luci ci si incontra nel proprio passato e nella propria contemporaneità. È come viaggiare in mondi paralleli, viverli, danzare tra di essi. Le immagini emergono dal nulla. Come frammenti di un puzzle vorrei trovare la loro disposizione, ma sono loro a collocarmi in uno spazio e in un tempo… della mia memoria… nella sua memoria. Non creo nulla, ma faccio fluire attraverso di me queste danze come in una celebrazione, le intuizioni, le fragilità dei vissuti vicini seppur divisi da anni, si intrecciano. Viviamo delle nelle nostre contraddizioni. Viviamo in ciò che lasciamo agli altri. Nella Danza troviamo le parole non dette, le immagini sfocate, le voci senza volto. Ricongiungiamo fili, ricoprendo gli spazi del vuoto della vita. La purezza dei cristalli, ecco la danza. La forza della radice, la danza è saknes. Dare senso alle fughe, per creare una fine. Assorbire il senso del ritorno, per sigillare un addio. Ovunque… comunque… solo una danza… una danza… un sacrificio erotico del cuore, buttato violato amato”.
Questo invece è quello che Benedetta Capanna ha raccontato a me dello spettacolo.
Come e perché hai iniziato a lavorare su tua nonna?
“Era da anni che desideravo fare un progetto su mia nonna; sono cresciuta ispirata dalle sue foto di scena ma anche piena di domande su di lei, sul suo lavoro e certamente sulla sua vita. Le somiglio molto e le nostre scelte di vita sono state molto simili non solo per la decisione di ballare e di fare della danza la nostra vita. Morì che avevo 11 mesi. Negli anni oltre ai ricordi di mio padre e mio nonno e di mia madre (noi donne abbiamo ricordi più ricchi e precisi degli uomini), ho cercato di raccogliere indicazioni e racconti di persone che l’hanno conosciuta come danzatrice, come insegnante, come donna. Ma diciamo che mi sono focalizzata totalmente in questo progetto coreografico da due anni e questo mi ha portato ad andare per la prima volta a Riga in Lettonia dove mia nonna è nata. Questo progetto che ho intitolato Saknes, parola che in lettone significa “radici”, è nato dal mio profondo desiderio e bisogno di creare un ponte tra me e il mio passato familiare. Saknes per me è ritrovare la radice del mio danzare, delle contraddizioni e suggestioni che ho percepito nel cuore da sempre, delle sue ombre e delle sue luci. È ricongiungere i fili di un arazzo che comincio solo ora a percepire”.
Che tipo di dialogo vuoi creare fra te e lei attraverso la coreografia?
“Nello sviluppo della coreografia, che non è ancora completamente finita, si sono gradualmente creati momenti e fasi diversi, tra loro collegati e che rappresentano questa ricerca nel passato e nell’anima. È come viaggiare in mondi paralleli, viverli, danzare tra di essi. Non creo nulla, ma faccio fluire attraverso di me queste danze come in una celebrazione, le intuizioni, le fragilità dei vissuti vicini seppur divisi da anni, si intrecciano. Ci sono momenti in cui è come se gettassi domande a un silenzioso passato. Altri in cui posso cogliere risposte sottili e ballare e giocare con delle immagini vive. A tratti mi sembra di richiamare mia nonna e di sentirla lì con me. Poi ci sono alcuni istanti speciali in cui mi sembra di guardare con i suoi occhi, sono brevi e intensi momenti di trance ma toccanti e là mi sembra di capire… C’è un passo di Cos’è il contemporaneo di Giorgio Agamben che mi ha accompagnato fin dal’inizio in questo viaggio: ‘Ciò significa che il contemporaneo non è soltanto colui che, percependo il buio del presente, ne afferra l’inesitabile luce; è anche colui che, dividendo e interpolando il tempo, è in grado di trasformarlo e di metterlo in relazioni con gli altri tempi, di leggerne in modo inedito la storia, di ‘citarla’ secondo una necessità che non proviene in alcun modo dal suo arbitrio, ma da un’esigenza a cui egli non può non rispondere. È come se quell’invisibile luce che è il buio del presente proiettasse la sua ombra sul passato e questo, toccato da questo fascio d’ombra, acquisisse la capacità di rispondere alle tenebre dell’ora'”.
La coreografia sembra una memoria che si trasforma passando di corpo in corpo, che senso ha per te la memoria in questo caso?
“Viviamo in ciò che lasciamo agli altri: questo è il pensiero che ho avuto non appena ho toccato delle lettere che mia nonna scrisse a sua sorella e che sono custodite al Museo della Letteratura e della Musica di Riga. In quel momento ho sentito un’energia forte e trasparente crescere in me. Mi sono sentita come se avessi cominciato un rituale. Ricongiungiamo fili, ricoprendo gli spazi del vuoto della vita: è’ stata la certezza mentre riconsegnavo la ricca documentazione e mi apprestavo ad uscire dal museo. Sono uscita certa che ci portiamo dentro ogni gesto, ogni parola detta e non detta di chi è venuto prima di noi, che lo vogliamo o no. Ma questo mi ha come dato maggiore consapevolezza e una visione più chiara e forse più matura anche della mia vita. Le immagini durante le prove sono a volte emerse dal nulla. Come frammenti di un puzzle vorrei trovare la loro disposizione, ma sono loro a collocarmi in uno spazio e in un tempo… della mia memoria… della sua memoria”.
Domanda inevitabile: avendo lavorato sia qui che in Italia, dove sei tornata dopo tanti anni di NY, che differenze trovi fra i due paesi a livello artistico e ora NY come la vivi?
“New York la vivo sempre con tanta emozione e anche ora mi brillano gli occhi. Quando atterro a JFK il cuore mi batte sempre forte e ho tanti carissimi amici, posso dire che è come se avessi una grande famiglia allargata e sono grata che il tempo non ha spento tali affetti, anzi li ha resi anche più forti. Credo che oggi essere artisti sia duro ovunque, tanto in Europa, nello specifico Roma, quanto negli USA e anche nella bellissima New York. Stiamo attraversando un periodo di decadenza e confusione che riguarda il mondo intero e da cui è difficile fuggire. Ma quello che vivo e che ho sempre vissuto a New York è un senso di community che in Italia è difficile sentire, e anche meno presunzione e maggiori diversità. In Italia siamo ormai molto modaioli e manieristi. La tendenza è di voler creare immagini forti, ma che hanno poi contenuti deboli. Dei bei pacchetti ma troppo leggeri dentro. Direi prevedibili. Un po’ troppo slogan. Il manierismo non è solo tecnico ma è di atteggiamento. A volte c’è troppo snobismo. A New York si sente ancora maggiore libertà, accettazione e condivisione delle diversità tematiche e stilistiche, ci sono più voci, più incontri e più scambi… New York è e sarà sempre New York, ed è questo che la mantiene grande”.
Lo spettacolo sarà in tournée in Italia e speriamo che presto torni a New York. Se volete sapere quando e dove vederlo, visitate il sito Internet di Benedetta Capanna.