Era il 1984 quando arrivai all’Università per studiare alla Facoltà di Lettere, ramo Discipline dello Spettacolo. Fra i testi che ci furono dati da assimilare negli anni, c’era quello interamente dedicato ad un signore chiamato Peter Brook e ad una sua opera che avevano detto essere rivoluzionaria: Il Mahabarata. Il Mahabharata meglio detto La grande storia dei Bhāratada intendersi come “la grande [storia] dei discendenti di Bharata”, è uno dei più grandi poemi epici dell’India insieme con il Rāmāyaṇa. Nel 1985 Brook diresse quella che è ancora considerata la summa del suo lavoro, la versione di ben nove ore del Mahābhārata. Lo spettacolo era frutto del lavoro antropologico/teatrale di Brook che prima di allora aveva esplorato i rituali di varie popolazioni africane – lavoro culminato con La conferenza degli uccelli – cercando di trovare un nuovo linguaggio teatrale che andasse al di là della forma tradizionale occidentale. Spiegare il Mahābhārata in poche righe è praticamente impossibile. Si trattava di un rituale da vivere con gli spettatori, una esperienza hic et nunc (qui ed ora) che aveva con sé valenze spirituali e filosofiche, assimilabili all’andare in trance e raggiungere una dimensione altra. Diceva Brook del Mahābhārata che era un immenso dipinto che rappresentava tutti gli aspetti dell’esistenza umana. “In esso troviamo tutte le domande della nostra vita in modo attuale e urgente” e ancora “il Mahābhārata ci mostra come vedere la realtà che ci circonda”.
Ora Peter Brook è tornato sull’opera omnia con Battlefield presentato al Bam Harvey theater all’interno del 2016 BAM Next Wave Festival. Il festival si propone di presentare la migliore avanguardia proveniente da tutto il mondo. E’ un’avanguardia di successo e ormai arrivata, visti i nomi ospitati dal BAM, però è indiscutibile che il programma è sempre molto interessante, anche se non si scoprono nuovi talenti. Come nel caso di Peter Brook che è arrivato nel 2015 alla veneranda età di 90 anni e ancora crea dialogo sul palcoscenico. Il motivo per cui è tornato sul testo del Mahābhārata lo spiega proprio Brook in una intervista pubblicata recentemente: “Ho deciso di tornare su questa opera perché abbiamo bisogno di trovare qualcosa che abbia una rilevanza oggi. Gli indiani dicono che il Mahābhārata contiene tutto e se qualcosa non è nel Mahābhārata allora non esiste” . Il poema parla della Guerra che distrugge una famiglia, quelle del Bharatas, alla fine una parte della famiglia, i Pandavas, vince contro l’altra, i Kauravas, lasciando milioni di morti la cui descrizione Brook assimila ad Hiroshima o alla Siria di oggi. Battlefield è dunque il racconto di quello che succede dopo la battaglia . Il testo pone un quesito fondamentale, secondo il regista: “Chi vince dice ‘la vittoria è una sconfitta’ e chi ha perso dice ‘potevamo prevenire questa guerra’. Nel Mahābhārata hanno la forza di porsi queste domande. Il nostro pubblico è Obama e chi lo sostituirà, Hollande e chi lo sostituirà, Putin e così via. La vera domanda è come vedono i loro oppositori”.
Lo spettacolo ha già lasciato New York e forse lo potrete vedere in qualche palcoscenico nel mondo, però voglio scriverne perché c’è ancora chi, come Brook, crede nel potere del teatro per fare filosofia, politica, respiro e comunità. Il messaggio di Brook è quello che il teatro non ha bisogno di grandi orpelli per esistere. Ha bisogno di energie, di parole, di scambi e di persone che insieme si ascoltino e insieme respirino. Anche se solo per un’ora e dieci minuti. Se comunque volete vedere qualche opera diretta da Brook, il BAM presenta fino al 18 ottobre Peter Brook: Behind the camera, una rassegna di film diretti dal regista, molti dei quali rappresentanti le opere che lo hanno reso famoso in teatro, dal Mahābhārata alla Conferenza degli Uccelli al Marat/ Sade e al Re Lear. Per maggiori informazioni, visitare il sito.

Se Battelefield è passato, alla Casa Italiana NYU ho assistito alla presentazione di uno spettacolo che potrà essere visto all’Alexander Kasser Theater della Montclair State University il prossimo settembre 2017. Si tratta del Mercante di Venezia realizzato dalla Compagnia de Colombari a luglio scorso a Venezia, proprio all’interno del Ghetto, in occasione del cinquecentesimo anniversario dell’esistenza del ghetto stesso e dei quattrocento anni dalla morte di Shakespeare.
La serata alla Casa Italiana è stata organizzata dalla Fondazione Bogliasco che da venti anni offre agli artisti una residenza creativa nella sua sede italiana. Lí la regista, Karin Coonrod, direttrice artistica della Compagnia De Colombari, ha illustrato ad una platea molto attenta il processo che ha portato alla realizzazione di un particolarissimo Mercante di Venezia. Si pensi solo che gli Shylock in questa versione diventano cinque e che ciascun attore veste i panni di vari personaggi. Ovviamente la bellezza della piazza del ghetto di Venezia ha reso lo spettacolo ancora più magico, come hanno attestato le foto e i brevi video che la regista ha condiviso con il pubblico. Fortuna vuole, come anticipato, che questo Mercante di Venezia arrivi a New York, o meglio in New Jersey, nell’autunno 2017. Per informazioni e aggiornamenti sullo spettacolo e sulla compagnia, consultate il loro sito Internet.
Chiudo con un one woman show visto al TheaterLab, il teatro sulla 36ma strada diretto dall’italiana Orietta Crispino. Lo spettacolo si chiama Such Nice Shoes ed è scritto e interpretato da Christine Renee Miller. Si tratta di una giornata di una ragazza a New York. Sposata, insegnante di yoga per lavoro, attrice per passione, Christine si alza la mattina alle 5:30 per cominciare la lunga giornata newyorchese. Insieme a lei prendiamo la metropolitana, incontriamo personaggi a noi newyorchesi molto familiari, conosciamo i suoi clienti – tutti rigorosamente ricchissimi — scopriamo piano piano le sue abitudini e fra i colori della sua vita, ci imbattiamo in quelli grigi, che portano momenti che si vorrebbero dimenticare. Una giornata a New York, un’esistenza a New York, una New York che è bella, varia, piena, ma alle volte fagocitante e ostile. Una New York che però – sembra volerci dire Christine – vale la pena di continuare a vivere giorno per giorno.
Lo spettacolo finisce il 23 ottobre, dunque affrettatevi, perché ne vale la pena. Christine è bravissima e il testo parla un po’ anche di tutti noi che viviamo a NY.