“Larger than life and recognizably imperfect”, così è scritto nella presentazione del Museum of the Moving Image di New York a proposito dei personaggi difettosi interpretati, mai per caso, da Philip Seymour Hoffman, a cui il museo dedica una bella retrospettiva, dal 16 settembre al 2 ottobre 2016.
È difficile scrivere di un attore che, almeno per me, è stato uno dei più grandi degli ultimi vent’anni, la cui scomparsa, il 2 febbraio del 2014, è stata una tragedia non solo perché ha messo fine alla vita di una persona, a quello che quella persona era, sentiva, immaginava, ma anche, egoisticamente, perché ha messo fine a qualunque possibilità di future interpretazioni di Philip Seymour Hoffman, sempre meravigliose perché Hoffman nei suoi personaggi cercava la verità, dei suoi personaggi interpretava la verità, le grandezze e le piccolezze, gli innumerevoli difetti, le tante indecisioni, le sfumature, quei particolari piccoli piccoli di cui è fatta la vita di tutti.
Nato a Fairport, alla periferia di Rochester, non poteva che scegliere New York City, città dove ha studiato, alla Tisch School of the Arts, dove ha fondato la sua prima compagnia teatrale, la Bullstoi Ensemble, dove ha interpretato tanti film, nei cui teatri ha recitato, dall’innovativo e viscerale Labyrinth Theater di cui era stato direttore artistico e con cui ha sempre continuato a collaborare, fino a Brodaway con Death of a Salesman (Morte di un commesso viaggiatore), al Delacorte Theater di Central Park con The Seagull (Il gabbiano) e molti altri ancora. New York è la città dove ha vissuto, nel West Village, fino alla sua improvvisa scomparsa.
Quarantasei anni sono pochi, non ci si accorge nemmeno tanto passano velocemente, eppure Hoffman ha interpretato oltre 60 film, ne ha diretto uno, Jack Goes Boating (2010), una delicata storia squisitamente newyorchese, ha interpretato tanti lavori teatrali, ha vinto un Oscar, per Capote (Truman Capote – A sangue freddo, 2005) ed è stato candidato ad altri due (per Charlie Wilson’s War – La guerra di Charlie Wilson e Doubt – Il dubbio), ha ottenuto numerosi altri premi e riconoscimenti importanti, tra cui quello come miglior attore in The Master alla 69ª edizione del Festival di Venezia.
Ma non ha fatto in tempo a fare tutto quello che un attore come lui avrebbe potuto fare. Larger-than-life significa esagerato, sopra le righe, e diversi dei suoi personaggi lo erano: uno per tutti, Truman Capote. Ma nel suo caso direi che la traduzione letterale che faremmo in italiano sarebbe forse la più appropriata: più grande della vita, più vasto e intenso della vita stessa, ed è proprio così che lo ricorda Mike Nichols, che lo aveva diretto nel Gabbiano, uno che metteva nei personaggi che interpretava tutto se stesso, le sue emozioni, ogni fibra del suo essere, ed è per questo che recitare per Hoffman, soprattutto in teatro, giorno dopo giorno davanti al pubblico, settimana dopo settimana, mese dopo mese, era così faticoso. Quella vita debordante che cercava di stringere nel suo corpo e in quello dei suoi personaggi, in cui emotività e fisicità non potevano essere più tangibili, più reali e più drammatiche.
Fin dai primi film interpretati, ancora giovanissimo, Hoffman in realtà mi è sempre sembrato più maturo dei suoi anni, un uomo senza età ma sicuramente non giovane per il suo modo di guardare la vita e rifletterla nei suoi personaggi, per quel suo corpo ingombrante rispetto a certi esili protagonisti con cui si trovava a lavorare, eppure sono bastati pochissimi minuti sullo schermo in Triple Bogey on a Par Five Hole (1991) e My New Gun (1992) per attirare l’attenzione di registi e produttori. Fino all’incontro con Paul Thomas Anderson: un piccolo ruolo in Hard Eight (Sidney), quello di un giocatore di craps, un incontro che gli cambiò la vita, o almeno la carriera. Il sodalizio artistico con Anderson ha offerto a lui e regalato a noi alcuni dei suoi ruoli più perfetti, proprio nelle loro imperfezioni: Boogie Nights, Magnolia, Punch-Drunk Love (Ubriaco d’amore), The Master. Incontro indubbiamente fortunato quello tra Hoffman e Anderson, ma penso piuttosto che sia stato un riconoscersi a vicenda. E quando questo accade, nascono dei grandi film.
Ci sono stati altri grandi film per Hoffman, aveva la capacità di intuire i personaggi giusti, protagonisti e non, quelli per lui più interessanti anche se apparentemente distanti, e renderli grandi. Happiness, The Talented Mr. Ripley (Il talento di Mr. Ripley), Almost Famous, The 25th Hour (La 25ª ora), The Ides of March (Le idi di marzo), fino al crepuscolare A Most Wanted Man (La spia), uscito pochi mesi dopo la sua morte. Poi, dopo la sua scomparsa, sono usciti anche Hunger Games 1 e 2, ma questi direi che fanno parte di un altro capitolo, quello delle scelte fatte per ragioni che non sono artistiche, non sono morali, sono banalmente e umanamente economiche. E questo, da qualcuno, gli è stato rinfacciato, storia vecchia.
È curioso vedere come relativamente poco sia stato scritto su Hoffman in tutti questi anni: tante recensioni dei film da lui interpretati in cui viene sempre (o quasi) molto apprezzato, ma a lui personalmente, forse poca attenzione. Se non il triste rituale di morbosità e dietrologie in occasione della sua morte. Sicuramente Hoffman è uno che la vita l’ha vissuta ma l’ha anche tanto combattuta, a volte l’avrà odiata, altre volte disperatamente amata: sta tutto dentro e oltre l’essere un attore non solo di talento ma profondo, che anche e soprattutto quando interpretava l’uomo qualunque — e lo ha fatto spesso — quell’uomo qualunque grazie a Hoffman aveva abissi di verità raramente raggiunti da altri attori. E sorprende come il giornalista di The New York Times che firma il pezzo in occasione della morte dell’attore tradisca qualche dubbio o insofferenza sulle qualità di Hoffman, cadendo anche lui in parte nella storia della dipendenza, aggravata dal fatto di essere forse “l’attore più ambizioso della sua generazione”. Ci sono attori che semplicemente non piacciono alla stampa: troppo difettosi, ma non in maniera sufficientemente mediatica. O troppo bravi. Uno sguardo attento alla carriera di Hoffman lo dedicava Nathan Rabin sul sito The Dissolve. Philip Seymour Hoffman non era cool, ma era epico.
Tra i tanti film fatti, i tanti indipendenti e anche quelli miliardari, ce n’è uno che forse non in molti hanno visto, un piccolo film pieno di verità, verità sulla vita, sulle persone, sulle relazioni familiari, sulle circostanze, un film in cui Hoffman dà il meglio di sé: The Savages (La famiglia Savage).È uno dei 16 film che il MoMI propone nella sua rassegna, uno di quei film che ci fanno amare il cinema e rimpiangere come non mai quell’attore straordinario che è stato, sempre, Philip Seymour Hoffman.