Non dico che proprio ce lo si aspettasse, ma probabilmente qualcuno se lo augurava, prima o poi, un omaggio al più interessante autore teatrale statunitense vivente. E di certo non poteva che arrivare da Luca Barbareschi, primo a introdurre David Mamet in Italia nei lontani anni ‘80, presentando American Buffalo (con Massimo Venturiello, 1984), Glengarry Glenn Ross (con Paolo Graziosi, 1986) e Oleanna al Festival di Spoleto 1993 (in cui recitava al fianco di Lucrezia Lante della Rovere). Negli anni a seguire Barbareschi ha messo in scena diverse altre opere di Mamet, rivendicando un legame privilegiato con un autore fondamentale del teatro contemporaneo, che è regolarmente in scena a Broadway con attori di grosso calibro, primo fra tutti Al Pacino. Proprio un giovanissimo Pacino è al fianco di Jack Lemmon nella versione cinematografica di Glengarry Glenn Ross (1992) e ritorna quattro anni fa nel ruolo di protagonista (al posto di Lemmon) nell’ultima produzione del testo a Broadway. Dichiaratamente per Pacino è stato scritto anche China Doll, ultimo testo teatrale di Mamet in ordine cronologico (allo Schoenfeld da ottobre 2015 a gennaio 2016) e primo nell’omaggio presentato all’Eliseo, con la firma di Alessandro D’Alatri alla regia e Eros Pagni nel ruolo principale (5-25 aprile).
Dopo l’estate saranno invece in scena quelli che Barbareschi definisce come “gli altri due cavalli di razza” della scuderia Mamet: Americani (Glengarry Glen Ross) con Sergio Rubini e Gian Marco Tognazzi, fra gli altri, e American Buffalo con Tonino Taiuti e diretto da Marco D’Amore, che ne ha voluto una originale traduzione in napoletano (a firma di Maurizio De Giovanni). Perché, spiega D’Amore, “la più grande lingua teatrale italiana intende dare un suono popolare a questi personaggi” e una nostrana vitalità all’opera.
Il linguaggio è in effetti la fondamentale caratteristica di una scrittura che resta in bilico fra cinema e teatro, scarna, diretta, concreta, ma nella quale è al tempo stesso imprescindibile ̶ e tangibile ̶ il non detto. Un tratto personalissimo quello di Mamet, che ha reso lui un’icona e il suo influsso un segno evidente nel teatro e nel cinema americano e non solo, dando origine a quello che viene definito Mametspeak. Un modo peculiare di “spezzare” il discorso, di rispondere a domande con altre domande, uno stile incisivo, distintamente riconoscibile, che ha dato origine a personaggi indimenticabili e che è valso all’autore numerosi premi fra cui un Pulitzer nel 1984 proprio per Glengarry Glenn Ross.
Un linguaggio che, a dispetto della sua linearità, rende ostica la traduzione, sia per la densità delle parole che per lo spessore dei silenzi. Il continuo attingere agli idiomi della lingua viva rende difficile travasare espressioni come la China doll del titolo, “l’abbiamo tradotta con ‘sotto scacco’ – spiega Alessandro D’Alatri – ma in realtà indica ‘quando succede un pastrocchio e tutto viene rimesso in discussione’, un concetto del quale non esiste un equivalente in italiano. In questo senso la scrittura di Mamet rappresenta esattamente la peculiarità del teatro: parlare delle cose che riguardano la nostra vita”.
Il suo lavoro, largamente apprezzato anche al di fuori degli USA, è “una palestra continua”, a detta dello stesso Barbareschi, la scuola di “uno che non molla mai”, a cui teatro e cinema contemporaneo devono davvero molto. “In Italia siamo cresciuti con questo autore ̶ racconta Sergio Rubini ̶ in un momento in cui era difficile anche dire ‘buonasera’ in modo naturale, lui ci ha insegnato ad aprire un frigorifero in scena”.
La sua peculiarità non è solo stilistica, ma il suo essere diretto ̶ e “scorretto” – corrisponde a un ritratto sempre fortemente autentico della nostra società. L’attualità dei suoi testi è invariabilmente spiazzante, in China doll si parla, ad esempio, di frode fiscale, di scandalo, di un giovane uomo assetato di potere e deciso a conquistarlo, consapevole del fatto che “là fuori c’è molta gente stupida e molti di loro votano”. Chi vi viene in mente? Glengarry Glenn Ross, che in italiano diventa Americani, tratta di crisi economica, di speculazione finanziaria e di valori umani calpestati. Vi ricorda qualcosa? American Buffalo racconta una storia di degrado sociale, periferie urbane e miseria morale. Vi sembra che tradurlo in napoletano possa avere un senso?
I tre testi sono inquietanti ritratti del presente, anche se solo il primo è effettivamente scritto oggi (2015), mentre gli altri due sono rispettivamente del 1984 e 1975. Ecco, che siano ambientati ieri o quaranta anni fa, a Chicago, a New York o in uno sperduto e polveroso angolo degli Stati Uniti, la fotografia che Mamet fa dell’uomo nel suo spaccato sociale, dove sempre prevalgono menzogna e istinto di sopraffazione, è talmente nuda e cruda che risulta attuale e vera anche in altri tempi e in altri luoghi.
Questa universalità che riguarda anche noi così da vicino, raccontata attraverso una sintesi linguistica che invece a noi italiani appartiene poco, è la ragione per cui Mamet andrebbe visto sempre e sempre più spesso messo in scena. Questo trittico, unito sotto l’accattivante titolo di Io Mamet e tu è senz’altro una rara occasione per frequentare il teatro di questo notevole autore, interessante anche per la varietà degli artisti coinvolti. Frutto della scelta consapevole di Barbareschi, per il quale “Mettere insieme professionisti con storie diverse fa sì che ognuno possa arricchire l’altro in modo nuovo, insospettabile”, questo progetto conferma il suo Eliseo come “una grande cornice che accoglie artisti diversi” e che oggi fa salire sul palco uno degli autori più prolifici e famosi nel mondo.
Se il suo teatro in Italia non è mai abbastanza frequentato, tanti sono in compenso i film notissimi che ha firmato come sceneggiatore o regista: Il postino suona sempre due volte, Il verdetto, Gli intoccabili…e chissà che prima o poi non si veda in questa sala anche una retrospettiva dei suoi film.