Dopo essere entrato in contatto con una sostanza radioattiva nelle torbide e sporche acque del Tevere, un ladrunculo romano, scontroso e chiuso in sé stesso, si rende conto di avere una forza sovrumana. È questo l’espediente narrativo che dà l’avvio a Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti. Ma il nostro supereroe non salva le persone come fa Superman, perché la prima cosa che gli viene in mente di fare è strappare un bancomat dal muro di una banca. Ad Enzo non importa nulla dell’umanità, preferisce passare il tempo a guardare film porno e a divorare budini alla vaniglia.
Il film a basso costo di Gabriele Mainetti è un riuscito esperimento di genere, per cui non stupisce che a due settimane dall’uscita si stia dimostrando un successo di pubblico. Oltre all’eroe riluttante, Enzo Ceccotti, interpretato da Claudio Santamaria, ingrassato di 20 chili, c’è Fabio, un cattivo psicotico e megalomane. L’attore romano Luca Marinelli, che ha tutte le carte in regola per diventare il nuovo Joker di Batman, porta in scena un villain ossessionato dalla fama e da un forte desiderio di rivalsa nei confronti di una società che lo ignora. E poi c’è anche una storia d’amore. Quella tra Enzo e Alessia, Ilenia Pastorelli, una donna problematica convinta che lui sia l’eroe Hiroshi Shiba del famoso cartone animato giapponese Jeeg Robot d’acciaio. Una serie del 1970 creato da Go Nagai, che è stata a lungo popolare in Italia. I riferimenti ad elementi tipici del mondo dei fumetti americani o dei manga giapponesi sono presenti e riconoscibili, ma la storia è originale, divertente con quel suo mix di pulp e elementi della cultura e subcultura pop italiana. Ne abbiamo parlato con il regista.
Perché questa passione per le anime giapponesi?
“Sono cresciuto a cartoni animati giapponesi. Una passione che ho portato avanti con risultati soddisfacenti con i cortometraggi. A partire da Basette e Tiger Boy liberamente ispirati ai manga giapponesi, Lupin III e Uomo Tigre. Mi ha sempre affascinato la capacità dei comics di costruire linee narrative complicate. L’idea del film è venuta comunque allo sceneggiatore Nicola Guaglianone che, come me, fa parte di quella generazione cresciuta a ‘pane e Bim Bum Bam’ (negli anni Ottanta era il programma TV per bambini più seguito, nda). Quella generazione che veniva lasciata ore e ore davanti alla TV”.
Per te chi sono i veri supereroi nella nostra società?
“Nell’immaginario collettivo sono figure straordinarie, più vicine a un dio che a un uomo. Per me i supereroi sono persone in lotta con la solitudine e con i mostri interiori ma capaci di non abbattersi e di sorridere sempre. In un paese in rovina come il nostro, si può essere un supereroe tutti i giorni. Ad esempio per me Alessia è una supereroina che si aggrappa ad un cartone animato per non perdere la speranza che le cose possano cambiare nonostante la vita che ha avuto. Ma eroe è anche Enzo e i ragazzi che come lui sono cresciuti nella disagiata periferia romana. Giovani che al contrario degli accattoni di Pier Paolo Pasolini che erano in un certo senso dei ‘puri’, vivono di espedienti. Enzo ha perso tutto ma quando sembra che stia per toccare il fondo, arriva l’incontro con Alessia”.
Perché il titolo Lo chiamavano Jeeg Robot?
“In effetti ho corso un grosso rischio. Molte persone mi hanno chiesto perché avessi scelto un titolo che poteva apparire ridicolo. Invece per me non lo è. Fa riferimento a quando eravamo piccoli e trascorrevamo le giornate a guardare i cartoni animati giapponesi. Erano gli anni in cui le nostre identità cominciavano a prendere corpo. E se la purezza di Alessia ci ricorda quei tempi, Enzo è la testimonianza di come a volte è la stessa società che porta disonestà nelle persone. Nel contesto sociale in cui è cresciuto il protagonista, non è strano trovarsi a pensare che l’unico modo per sopravvivere sia delinquere. Chissà se la vicinanza con Alessia aiuterà il protagonista a recuperare la sua umanità, momentaneamente sepolta dai fantasmi del passato”.
Nel film, non rinunci a osservare l’attualità. La criminalità organizzata che tiene in scacco una città, il degrado dei quartieri di periferia, la psicosi del terrorismo. Come mai?
“Monicelli diceva: il cinema è come la letteratura, deve cogliere l’attualità e mostrarla. Un poeta del cinema che leggeva con ironia e critica la nostra società. A Roma, il caso di Mafia Capitale ha rivelato un sistema di complicità tra politica e criminalità, ampiamente strutturato e invasivo. L’ombra lunga degli attentati di Parigi e il senso di insicurezza provocato dall’offensiva islamista investe la vita quotidiana. Anche se in Italia rispetto ad altri paesi come la Francia, i rischi di un attentato sono minori. Questo perché, diciamoci la verità, la Francia è il Paese che ha colonizzato la maggior parte dei territori islamici. Nel film la minaccia dello scoppio di una bomba allo stadio Olimpico, (riferimento al fallito tentativo mafioso del 27 gennaio 1994, nda) è stata l’occasione per vedere se il nostro “eroe” avesse voglia di fare la differenza, di fare qualcosa per aiutare la tanto disprezzata gente”.
I tre protagonisti sembrano rappresentare una generazione traumatizzata. È davvero così?
“La percezione di sentirsi emarginati è chiara nei tre protagonisti. In particolare a favorire il narcisismo epidemico di Fabio sono le nuove tecnologie diventate ormai pervasive e che ci spingono a farci selfie ovunque e a contare le visualizzazioni dei video che abbiamo postato su YouTube. Oggi siamo vittime dell’alienazione tecnologica. Computer, smartphone, tablet, televisiori diventano per Enzo, Alessia e Fabio una fuga dalla realtà”.
Chi sono i tuoi eroi preferiti?
“Nel cinema i supereroi sono rappresentati come essere umani troppo spesso schiacciati dal potere delle loro responsabilità. Prendiamo Batman, costretto a sublimare il senso di colpa e la rabbia per aver assistito all’omicidio dei genitori quando era appena un bambino, è in perenne conflitto con i suoi dubbi morali. A me piacciano invece gli anti-eroi de I guardiani della Galassia che scardina tutti i cliché del genere. Come tento di fare nel mio film, dove Enzo una volta scoperti i suoi poteri non sente alcun dovere morale di salvare l’umanità. Per dirla in breve, sono un amante dei perdenti veri che all’occorrenza riescono a compiere azioni straordinarie. E non è un caso che il mio supereroe preferito sia l’incredibile Hulk di Ang Lee che racconta di uno scienziato mite e con buone intenzioni a cui sfugge il proprio potere”.
Negli Stati Uniti, i comics sono lo specchio della società americana. È così anche per te?
“Mi viene in mente un grande regista come George Romero, che ha accostato al genere la denuncia sociale. Il mondo creato da Romero nella lunghissima serie di film sugli zombie è lo specchio deformante di quello reale. Di una società sofferente dove il morto vivente è una figura che fa del possesso e del consumo la sua sola ragion d’essere”.
Guarda il trailer di Lo chiamavano Jeeg Robot: