Nell’autunno del 1959 avevo appena compiuto otto anni. La vita mi sembrava bellissima e piena di scintillanti aspettative. Frequentavo le elementari presso la scuola pubblica Gian Giacomo Badini, soprannominata anche “scuola all’aperto”, che si piccava di essere all’avanguardia nel settore dell’insegnamento, soprattutto per quel che riguardava i corroboranti e geniali metodi innovativi. In realtà le cose che mi ricordo meglio erano solo delle assai poco esaltanti lezioni sotto i platani del ghiaioso giardino nel rigido mese di febbraio e la colazione obbligatoria del mattino, anche se già l’avevi fatta a casa tua. Il cioccolato bollente, dall’orrido sapore di rame, veniva servito in grosse tazze di latta, costruite probabilmente durante la prima guerra punica.
I miei genitori, all’epoca, avevano un po’ più di trent’anni e, oltre a lavorare, si divertivano, beati loro. La sera, spesso andavano in Via Veneto, la strada della Dolce Vita, a chiacchierare con i loro amici e con tutta una serie di conoscenti del mondo dello spettacolo e della cultura. Chiacchieravano e fumavano, fumavano e chiacchieravano, poiché nel ’59 tutti, ma proprio tutti, fumavano e, probabilmente, tutti, ma proprio tutti, chiacchieravano. Spesso, al sabato sera, i miei organizzavano anche delle feste danzanti in casa e io avevo il permesso di andare a salutare gli ospiti, prima di tornarmene a letto, nel mio bel pigiamino di flanella a quadri scozzesi. Le signore erano davvero fantastiche, fasciate nei loro aderenti tubini neri, con le collane di perle intorno al collo e i vertiginosi tacchi a spillo. Gli uomini si presentavano invece in eleganti principi di Galles, perfettamente stirati, con il risvolto dei pantaloni che sfiorava appena le lucide scarpe scure modello Duilio. Nell’angolo bar, mio padre versava nei lucidi bicchieri cocktail e aperitivi vari, mentre la mia attenzione era invece irresistibilmente attratta verso l’angolo opposto della stanza, quello in cui troneggiava il nuovo giradischi Grundig, appena uscito. Lì intorno erano sparsi, in modo disordinato, tutta una serie di dischi, dalle copertine colorate e affascinanti. Così, facendomi largo a fatica, tra le carezze delle varie signore che non facevano altro che inondarmi dei loro conturbanti profumi, sbaciucchiarmi con le labbra colme di rossetto, al ritmo degli stucchevoli complimenti della serie “che carino, che carino!”, riuscivo finalmente ad arrivare a destinazione.
Mamma aveva appena messo sul piatto del giradischi un disco dei Platters. La prima canzone si chiamava Only You e i primi ballerini già partivano al centro del salotto, per ballare il loro inevitabile lento, guancia a guancia, tête-à-tête. La canzone era bellissima, non comprendevo assolutamente nulla delle parole, anche se capivo che era indubbiamente una canzone d’amore, in cui l’innamorato di turno si rivolge alla sua bella, con dolci e carini complimenti. Io guardavo la foto di quei cinque cantanti di colore sulla copertina, quattro uomini e una donna, e leggevo le note che li riguardavano, apprendendo così che si erano formati solo sei anni prima, a Los Angeles, e che i loro dischi erano attualmente primi in classifica in tutto il mondo.
La voce solista apparteneva a tal Tony Williams che utilizzava per la prima volta il cosiddetto singhiozzo, per spezzettare le note, una cosetta niente male che si era inventato lui o forse no, che non se l’era per niente inventata lui, chi lo sa? La ragazza aveva un nome buffo, si chiamava Zola Taylor ed era molto carina davvero, con un sorriso dai denti bianchissimi e un vestitino bianco attillato che ne metteva in risalto le varie curve e sottocurve. Quel nome Zola mi faceva venire in mente i personaggi dei fumetti che leggevo in quel periodo. Ad esempio lei poteva benissimo essere un’amica dell’Uomo Mascherato oppure, ancora meglio, poteva assomigliare alla fidanzata di Lothar, il fido compagno di Mandrake, mago invincibile, con i baffetti disegnati sotto al naso e il cappello a cilindro sulla testa.
I brani che venivano dopo, forse, erano ancora più belli del primo. Smoke Gets In Your Eyes, The Great Pretender, You’ll Never Never Known. Lo dico con il senno del poi, poiché, all’epoca, non mi era data alcuna possibilità di arrivare ad ascoltare gli altri brani dell’album, dopo il primo. Infatti ero subito rispedito in camera mia, mentre il campanello della porta continuava a suonare e arrivavano nuove orde di invitati, avidi di cocktail e balli appassionati.
“Vai già a dormire, tesoro?”, mi domandava Virna Lisi, la nuova amica di mamma, l’attrice che non poteva mai dire niente di male perché “con quella bocca può dire ciò che vuole”, almeno questo sottolineava la pubblicità del noto dentifricio. “Se vuoi resto, zia Virna”, rispondevo io, con la faccia furba. “Fila!”, tuonava allora la voce di mamma, seguita a ruota dallo sguardo assassino di papà che, dall’altra parte della stanza, continuava a versare nei bicchieri un Martini dopo l’altro.
Così, con la coda tra le gambe, e un po’ di tristezza dentro al cuore, imboccavo il corridoio e sparivo dalla scena. Però nessuno aveva notato che, sotto al pigiamino, mi ero infilato la copertina del disco. Così, una volta arrivato in camera, avevo tirato fuori dal cassetto una copia di carta carbone e una di trasparente e, ricalcando perbene il profilo, avevo riprodotto l’immagine della bella Zola che, con una puntina da disegno avevo poi affisso al muro della stanza. Poi mi ero infilato a letto, spegnendo subito la luce sul comodino. Però dopo qualche istante, l’avevo riaccesa, mi ero alzato e avevo afferrato una matitina rossa. Ero andato verso la parete e, sul foglio di carta, vicino all’immagine della bella cantante americana, avevo scritto quelle due parole che ormai conoscevo molto bene: Only You.