C’era una volta una Principessa che abitava in un bel castello, circondata di cose preziose e buone maniere. Un giorno incontrò un uomo affascinante, se ne innamorò e decise di seguirlo, ma finì per perdersi nel mondo. E anziché spaventarsi a morte, imparò a vivere…. Se la favola si rivela incredibilmente una storia vera, la fabula dà vita a un raffinato e attualissimo spettacolo sull’emancipazione femminile, mentre la Principessa di Belgioioso risorge nell’interpretazione appassionata di Anna Bonaiuto.
È proprio l’attrice a riscoprire questo personaggio nascosto nelle pieghe di una storia scritta sempre troppo al maschile, decidendo di farlo vivere sulla scena, in un agile spettacolo che l’attrice da quattro anni porta con sé “in una valigetta”, sempre pronto alla messa in scena. Determinata a salvare la Principessa da quell’oblio che temeva più della fine dei propri giorni. Lo scrive Cristina Trivulzio, principessa di Belgioioso nelle pagine di memorie che in questo copione si mescolano al testo di Gianfranco Fiore in un monologo fluido, ritmato e pulsante di vita come la sua protagonista. Colta, sofisticata, ironica, umile, spavalda, la belle joyeuse è eroina del Rinascimento, figlia dell’Illuminismo e musa del Romanticismo. Ma è soprattutto una femminista ante litteram, che fa del proprio status una rampa di lancio per incredibili avventure e del suo patrimonio uno strumento al servizio della libertà.
Passa con disinvoltura dai salotti intellettuali alle cospirazioni politiche, pronta ad abbracciare la causa rivoluzionaria, ma anche a riconoscerne lucidamente il fallimento in una “Italia unita, ma governata senza grandezza e senza innocenza”. Figura teatrale, sempre al centro della scena, é protagonista in prima persona dei grandi fatti della storia europea, fortemente ammirata, invidiata o disprezzata da un pubblico che non resta mai indifferente alla sua presenza. Le sue scelte, impensabili – inaccettabili – per una donna dell’800, ne fanno una figura controversa, dai tratti moderni. Irresistibile.
Nell’incontrarla, è stata conquistata dal suo indomito coraggio e dalla sua vitalità. In cosa le somiglia la Principessa?
Purtroppo non ho molto in comune, anzi mi piacerebbe essere una donna come lei: mi emoziona, mi fa innamorare il suo lottare sempre, ricercare la verità, “spezzare le cose per guardare il vero che c’è dentro”, il non fermarsi mai, pensare, rivedere, autocriticarsi. È una che non si accomoda, che riesce a dire “la mia malattia forse mi ha salvata”, impedendole di diventare “un’oca da salotto” come tutte le nobili dell’800.
Che cosa la rende tanto attuale?
Era avanti sui tempi, per il suo femminismo, e assolutamente libera: ha lasciato il marito a 20 anni, ha avuto una figlia e non ha mai voluto dire di chi fosse, la chiamavano “la comunista demente” perché era decisamente e sinceramente di sinistra, antimonarchica, ha combattuto sulle barricate…un personaggio che non poteva non restare nel Risorgimento. Ma non era una donna consolatoria, non era madre, moglie fedele, tale da poter rappresentare la donna italiana. Ha pagato per secoli: non ci sono strade o piazze dedicate a lei, c’è una censura verso di lei a partire dall’Unità d’Italia. Anche per me è stata una scoperta tardiva, mi ha molto colpito una sua frase: “non temo la morte, temo l’oblio, temo che si ricorderanno di me solo come Principessa capricciosa, non per quello che ho detto, scritto e fatto”. Così ho deciso di far leggere i suoi scritti all’autore, Gianfranco Fiore, che ci ha lavorato molto bene: non si sentono i passaggi nel testo, perché lei scrive in modo molto moderno e lui ha tenuto un linguaggio alto, con una ricchezza di parole che ormai sta sparendo. Sono stata attratta terribilmente dalla sua ossessione per gli ideali che ha portato avanti tutta la vita, dal suo essere sempre combattente, sia fisicamente che intellettualmente. Ma mi era molto piaciuto anche il suo lato decisamente teatrale: era una donna che si divertiva, si travestiva, si rappresentava, seduceva, giocava con la propria immagine. Sembra un personaggio inventato, invece nel monologo ci sono solo cose vere.
Secondo lei oggi la donna ha ancora bisogno di essere eroina, di combattere per affermare i propri diritti o semplicemente se stessa?
Assolutamente. Non è finita, è appena cominciata. È un momento in cui le lacerazioni si sentono più forti, proprio perché in teoria c’è una parità, ma in pratica sappiamo che non è così e quanta strada c’è ancora da compiere. Credo che donne a volte si sentano ancora insicure, come se dentro di loro esistesse il dubbio che forse devono stare al loro posto, che in fondo è vero che gli uomini sono meglio. Dentro tante donne credo ci sia ancora questo concetto. E quante vengono eliminate, punite perché vogliono avere la propria dignità!
In teatro e nella sua storia professionale, esiste la dicotomia uomo-donna?
Sì, in tutto le donne sono molto indietro. In parte perché da sempre hanno frequentato meno questo ambiente, in parte perché c’è una volontà di tenerle un po’ lontane, in fondo dà fastidio che la donna possa essere regista. L’attrice ci deve essere, in quanto esistono i ruoli femminili, per quanto pochi in proporzione ai ruoli maschili grandiosi. Ma per tutto il resto per una donna è più difficile.
Pensando ai suoi personaggi, mi vengono in mente tanti ruoli non facili, quello de L’amore molesto, ad esempio. È un modo per essere rivoluzionaria, per dire cose scomode?
Amerei che me ne offrissero di più, perché il banale e il generico non portano a nulla. Possono essere personaggi sgradevoli, ma quando si affrontano i problemi e si va a fondo alle cose è sempre rivoluzionario. La verità è rivoluzionaria, porta con sé il dolore. Sì, penso sia importante fare cose scomode.
C’è un personaggio a cui è più legata o che ha segnato di più la sua carriera?
A parte L’amore molesto [svolta nella sua carriera di attrice, che le ha portato un David, un Nastro d’argento e un Globo d’oro, ndr], anche il ruolo avuto nel Teatro di guerra di Martone, perché è quello di un’attrice, con le sue solitudini, tradizioni, passione. Racconta quanto sia importante per un attore fare il proprio lavoro, perché non è secondario, è la vita. È come se la realtà la si trovasse nella finzione, in quanto metafora che racconta l’essere umano.
Fa un distinguo fra cinema e teatro, rispetto al ruolo dell’attore e dunque a quello che significa fare questo mestiere per lei?
No, un attore è un attore. Sono gli incontri con il testo e il regista che fanno diventare le cose buone, cattive, mediocri. Nel mestiere non c’è differenza, è la situazione che cambia le cose. È chiaro che nel cinema sei più manipolato, mentre in teatro sei più libero e hai più responsabilità, però il processo dell’attore, cioè il tirare fuori qualcosa che può toccare, colpire, divertire, è lo stesso.
E il suo cuore è su un palcoscenico o davanti ad un telecamera?
Direi su un palcoscenico.
Nata a Udine, ha origini napoletane e un forte legame con la città partenopea. Dov’è la sua casa?
Sono apolide. La mia vita è stata in Friuli, ma con un padre napoletano, che mi faceva conoscere Napoli. Per me c’erano due lingue, ci sono sempre stati due mondi dentro di me. Ora vivo a Roma, dove ho fatto l’Accademia e ho lavorato con tanti, ma la mia fusione a caldo è Napoli-Friuli. Due luoghi che hanno segnato il mio modo di essere, due realtà così diverse, lontane, opposte, penso siano una ricchezza. A Napoli dovevo tornare. Era nella mia infanzia, poi c’è stato l’incontro con Carlo Cecchi, un altro per cui Napoli è l’origine del teatro. Era un legame che doveva stringersi, quella lingua e quel corpo napoletano c’erano, dentro di me. E ci sono ancora.
Prossimamente Anna Bonaiuto sarà di nuovo in scena con la ripresa di una Clitennestra firmata da Vincenzo Pirrotta, perché “il teatro, anche quello contemporaneo, deve essere sempre simbolo di qualche cosa, deve andare oltre la quotidianità, non è facile”. Non lo è, ma lei ci riesce.
*Articolo pubblicato anche su Teatroteatro.it.