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May 7, 2015
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La Sicilia tradita/ “L’albero di Giuda”, ovvero la beffa del parco tematico di Regalbuto

Maria Angela CasanobyMaria Angela Casano
Time: 7 mins read

“Per ritmo, ironia, linguaggio e capacità di denuncia. Un’opera che racconta in maniera icastica l’arte del tradimento politico nei confronti di una realtà staccata dal continente e insulare, la Sicilia. Una regione che non è soltanto un’entità geografica, ma un luogo che ha subito indifferenza, populismo e un fallimento sociale legato al cinismo di una classe padronale arcaica. Il film ha la capacità di evidenziare una negatività ancestrale attraverso uno sguardo ironico, secondo la definizione di Goethe: ‘L’ironia è la passione che si libera nel distacco’. Tale distacco produce comunicazione e denuncia nello stesso tempo”.

È questa la motivazione che la giuria popolare del ‘Bari International Film Festival’, presieduta da Achille Bonito Oliva, dà il 9 aprile 2014 per la vittoria del premio ‘Vittorio De Seta’ al docufilm “L’albero di Giuda”, scritto e diretto dal regista regalbutese, Vito Cardaci, vincitore.  

Vito Cardaci è un fotografo e filmaker di chiara fama. La sua carriera ha inizio come compositore,  autore e cantante; in questo campo vanta numerose collaborazioni con famosi cantanti del panorama italiano. I suoi ultimi lavori in qualità di regista mettono in evidenza la sua passione e le sue competenze sia in campo musicale che cinematografico.    

È autore di numerosi corti tra i quali: “L’albero di Giuda”. Leitmotiv di questo docufilm è il tradimento politico in Sicilia. La vicenda narra l’eclatante beffa del parco tematico che avrebbe dovuto vedere la luce sulle sponde del lago Pozzillo, nei pressi di Regalbuto, centro dell’Ennese, nei primi anni del 2000. Il parco, per reconditi motivi, non si è mai materializzato…  

Il regista Cardaci segue – e fa seguire – la vicenda con grande interesse. La triste conclusione delle sorti socio-economiche di questo angolo della Sicilia accende in lui il desiderio di raccontare il tramonto di un sogno in un docufilm dal titolo azzeccatissimo. Lo fa a mo’ di cuntu (racconto) con  tono ironico, sarcastico e amaramente icastico.

Una voce narrante mette in campo le retoriche promesse dei politici i quali elargiscono garanzie rassicuranti condite di buoni propositi che, alla fine e a risultati ottenuti, restano solo parole. La dietrologia non risparmia nessun elemento della classe dirigente. A raccontare è il protagonista della vicenda: l’albero di carrubo, nel titolo “L’Albero di Giuda”. Piantato in occasione dell’inaugurazione del famoso progetto, da simbolo di speranza diventa sinonimo di tradimento nei confronti dei siciliani prigionieri delle illusioni e bramosi di cambiamenti radicali. Abbiamo posto alcune domande a Vito Cardaci. Sul suo docufilm, sulla Sicilia e, in generale, sulla sua vita.  

Ideare e produrre nell’ambiente in cui viviamo un documentario come “L’albero di Giuda” non sarà stato facile. Nel docufilm si raccontano i retroscena di un’intera classe politica. E se da un lato la sua passione e professionalità vengono premiati dai consensi del pubblico, da un altro, la sua diffusione viene – per ovvi motivi – ostacolata, dato che non è accettato nei festival e in eventi vari. Quanto “coraggio” e determinazione servono a un regista siciliano per portare alla luce una storia  consumatasi nell’ambiente in cui vive e lavora?

“Produrlo e idearlo è stato facilissimo invece, perché mi è bastato spacciarmi per regalbutogiornalista per riuscire a far emergere il narcisismo di quella classe politica che, ripresa dal basso, riesce a dare il meglio o il peggio di se stessa. Il problema reale è stato il dopo: infatti un politico spogliato, nudo che si atteggia in quel modo, con il senno del poi non piace a nessuno, figuriamoci ai diretti interessati. Quindi sì, occorre una buona dose di coraggio, specialmente quando si riesce ad essere trasversali e non di parte al punto da fare antipatia a qualsiasi forza politica”. 

“L’albero di Giuda” ha fatto parlare di sé sin dalla prima apparizione al ‘Bari International Film Festival’. L’ambito premio è la prova madre che il docufilm è un progetto vincente. Nonostante le difficoltà che si ritrova a fronteggiare che valore ha questo riconoscimento nella volontà di non fermarsi?

“Il valore di questo riconoscimento è solo quello di aver ricevuto il premio ‘Vittorio De Seta’, di cui vado molto orgoglioso. Il ‘Bari Film Festival’ è forse il miglior Festival di cinema in Italia e non lo dico perché ho ricevuto un premio, ma per quell’assenza del divismo, di stupide passerelle. Un appuntamento che privilegia veramente al grande cinema, quello fatto di contenuti, che non significa necessariamente film per addetti ai lavori, ma anche leggeri e d'autore. Il cinema è anche questo, non quello che vogliono farci credere alcuni imbecilli che si svegliano direttori artistici di rassegne cinematografiche solo perché guardano qualche film in streaming… Per il resto, Bari non mi è servito a nulla, se non ad alimentare l'illusione che si era rotto un incantesimo e che cioè, il film avrebbe avuto una sorte diversa”.

Il docufilm non si limita a raccontare la parte cronachistica dei fatti, ma affianca anche le tristi vicende umane che la mancanza di occupazione genera in un territorio sterile come la Sicilia; il che propone agli spettatori un’analisi sociologica del contesto. Asserisce, inoltre, l’imperdonabile mancanza di attenzione da parte della gente nei confronti di una vicenda che avrebbe cambiato le loro sorti. Qualcuno ha detto che la scelta lodevole di andare oltre la cronaca, interessando con particolare attenzione il dramma umano, fa de “L’Albero di Giuda” un vero capolavoro.

“Il film ha la capacità di far indignare chi lo guarda, facendogli assumere la responsabilità  in prima persona. La sfida consisteva anche in questo. E' facile fare ‘antipolitica’ sparando sulla croce rossa, fare demagogia o populismo, ma far incazzare lo spettatore per i suoi peccati, per le sue colpe, non è molto popolare. Non sono all'altezza né la persona adatta per parlare di capolavoro, ma ricordo perfettamente le parole di Maurizio Di Rienzo subito dopo la prima di Bari: questo film farà scuola nel mondo del documentario italiano, perché rompe gli schemi narrativi con genialità”.    

Quanto ha  influito l’amore per la Sicilia nella scelta della struttura narrativa?

“Non amo molto la Sicilia, ma è proprio grazie a questo disamore che posso raccontarla nel modo migliore”.   

“L’albero di Giuda” rientra nella categoria del cinema indipendente. E’ stata una sua scelta o si è ritrovato costretto ad auto prodursi?

“Rientra nella categoria ‘Aiutati che Dio ti aiuta’. Avevo una cinepresa, una storia, una buona capacità di montare il tutto e l'ho fatto. Nessuno avrebbe prodotto una cosa del genere, non ha mercato, non interessa. La puoi fare per passione e per le nozioni che hai acquisito nel tempo. Per cui sì, se fa più colore dire che è cinema indipendente, diciamolo…”.

La  politica che influsso esercita sulla cultura?

“La politica, come la religione, è così subdola da rincoglionire intere generazioni. Siamo ancora vittime del berlusconismo televisivo, per cui non siamo messi bene”.

Un film che avrebbe voluto dirigere?

“Quello che devo ancora fare. Non è una battuta scontata, ma la verità…”.

Rifarebbe “L’albero di Giuda”?

“Assolutamente sì, e lo farei anche più lungo, così la mia amica Giovanna Taviani non lo butterebbe fuori dal Salina Doc Fest!".

Progetti futuri?

“Il film che non ho ancora fatto”.

Da un po’ di tempo – grazie alla rassegna di cinema indipendente che fa tappa in diversi  luoghi della Sicilia –  “L’albero di Giuda” viene proiettato nelle scuole. L’obiettivo è quello di educare le generazioni future a non subire supinamente soprusi, ingiustizie e false promesse. Sostanzialmente un invito alla Legalità con la L maiuscola. Cosa ne  pensano i giovani de ‘L’albero di Giuda’?   

“Alla maggior parte non interessa nulla, li vedo durante la proiezione con i loro tablet. In pochi sono attenti e fanno domande. Ho ricevuto più domande dai ragazzi delle medie, che da ragazzi delle scuole superiori”.

Alla luce di tutto questo e perseguendo la legalità, vale la pena continuare e perseverare?

“No!”.  

A questo punto una breve digressione sulla colonna sonora che commenta gli episodi della vicenda. Lo spettatore si accorge subito che la narrazione delle melodie si associa a un perfetto commento descrittivo delle pur sempre cangianti situazioni. Al cambiamento delle scene visive corrisponde un cambiamento di tonalità. Il tutto con adeguati accordi che commentano una linea melodica che tende a emergere in un efficace processo descrittivo. Una composizione in stile concertante, dove non si capisce bene se il protagonista della performance è questo o quello strumento. Le inquadrature si muovono in diverse tipologie di campo rendendo originale il montaggio. 

All’interno vi è anche un motivo composto da lei dal titolo: ‘Utopia’. Titolo ben azzeccato, in quanto scaturisce da concrete situazioni le cui aspirazioni poi diventano volutamente ostacolate, impossibili: ecco l’Utopia.

“Sì, la musica è il sale della narrazione. Da musicista ho una cura maniacale del suono e delle musiche. Non potendomi permettere un compositore per via della lunga durata della lavorazione (sette anni) e non avendo tempo di scrivermi le musiche, ho optato per delle opere bellissime di artisti vari e sconosciuti ai più. Per il tema principale del film invece, ho ripescato ‘Utopia’ da un album che avevo scritto molto tempo fa e che non ho mai pubblicato”.  

 

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Maria Angela Casano

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