Questa è l'ottava puntata del racconto Federico". Le prime sette puntate le potete leggere qui.
Ogni tanto con Federico parlavano dei loro rispettivi giornali.
– “Il nostro – gli diceva l’amico – è un giornale governativo. La cautela è d’obbligo. Dobbiamo misurare ogni parola. Soprattutto in politica e in economia”.
– “Io veramente non trovo alcuna differenza tra i pezzi che scrivo per il mio giornale e quelli che scrivo per voi. Possono cambiare gli argomenti. Ma se devo dire una cosa la dico, a Palermo come a Napoli”.
– “E infatti ogni tanto ci crei qualche problema – gli aveva risposto ridendo Federico -. Soprattutto quando vai giù duro con chi governa”.
– “Non me l’avevi mai fatto notare”, aveva ribattuto Ferdinando.
– “Perché sai quando ti devi fermare”, aveva replicato l’amico.
L’ultima volta, però, Ferdinando non si era fermato. Aveva tirato dritto. Aveva messo nel conto un po’ di casino. Ma non immaginava un esito così disastroso. “Ne uscirò anche stavolta”, pensava.
Era sempre stato ottimista. Era uno dei pochi che, quando il suo giornale aveva cambiato veste, aveva trovato bellissimo il nuovo progetto grafico. Che portava la firma del grande Maoloni. Un artista. Il risultato era un giornale moderno, agile, leggibile. Per Ferdinando era una grafica bellissima. L’unica cosa che non gli andava giù era l’addio alla sua vecchia Olimpia. Per anni quella macchina da scrivere era stata la sua fedele compagna di lavoro. Abbandonarla così, di brutto, non gli andava proprio. Gli sembrava di tradirla.
“E’ questione di qualche giorno – gli aveva detto un tecnico che lavorava con Maoloni al progetto grafico -. Appena prenderai confidenza con il computer non tornerai mai più a scrivere con la tua amata Olivetti”.
Ferdinando non sembrava molto affascinato dal computer. Aveva insistito affinché sulla sua scrivania restasse la vecchia Olivetti. Era stato accontentato. Anche se una mattina aveva vissuto una mezza tragedia. Era arrivato al giornale, come al solito, alla sei e 45 del mattino e non aveva trovato la sua Olivetti. Era tramortito dalla rabbia. I commessi e il segretario di redazione non erano ancora arrivati. Ferdinando vagava da una stanza all’altra. Ma della sua macchina da scrivere nemmeno l’ombra. A un certo punto si era messo a piangere. Il capo servizio dello sport, che come lui arrivava in redazione di primo mattino, cercava di consolarlo.
“Vedrai, sarà stato un disguido – gli disse -. Nessuno ha interesse a una macchina da scrivere che ha più di vent’anni”.
A chiarire quello che era successo pensò Franco, il segretario di redazione. Fu lui, nel giro di dieci minuti, a ritrovare la vecchia Olimpia.
– “Sono stati i ragazzi delle pulizie – spiegò Franco -. Pensavano non ti servisse e l’hanno portata giù nel magazzino”.
Ferdinando avrebbe voluto ammazzarli. Per quasi un’ora l’avevano privato della sua Olimpia. Per un’ora aveva pensato che non l’avrebbe più ritrovata. Quando la rivide sulla sua scrivania si calmò. E cominciò a lavorare.
La scena venne raccontata al direttore. Che a fine mattinata, avvicinandosi alla scrivania di Ferdinando, gli disse sorridendo:
– “Ti stavano privando della tua sposa meccanica. Gravissimo…”.
– “Direttore, la sposa meccanica del nostro tempo è l’automobile. Così almeno la pensa Marshall McLuhan”.
– “Così, oltre ai misteri della Regione siciliana, conosci anche McLuhan?”,
– “Che vuole, ci diamo da fare”.
Non mancarono le battute ironiche dei colleghi. L’unico che prese le sue difese fu Peppino, il cronista di giudiziaria.
– “Io non ci trovo niente da ridere – disse agli altri colleghi -. Per dieci anni Ferdinando ha utilizzato l’Olimpia. Sempre quella. Si è affezionato. Toglie qualcosa a qualcuno? Non mi pare. Il nostro è un lavoro che si ama. Passiamo qui dieci-dodici ore al giorno. Non potremmo farlo se non amassimo questo lavoro. E si amano pure gli strumenti con i quali lavoriamo. Comprese le macchine da scrivere che non usiamo più. Ferdinando ha ragione. Lasciatelo in pace”.
Quel giorno, a fine mattinata, a giornale chiuso in tipografia, Ferdinando non aspettò nemmeno le prime copie. Prese con sé la vecchia Olimpia e se la portò a casa.
Ripensava a questo e ad altro, quella mattina, sdraiato sul letto della sua casa di Sciacca. I ricordi si affollavano nella mente di Ferdinando. Ricordava la sua vecchia Olimpia. Pensava a tutti gli anni passati nella redazione del giornale del pomeriggio. Le lunghe discussioni con Angelo e con Vittorio. Si rivedeva in tipografia a prendere le copie del giornale appena uscite dalla rotativa.
La prima volta era sceso in tipografia con Vittorio. Appena in strada con il giornale appena stampato tra le mani, Vittorio gli aveva detto:
– “Ha guardato le tue mani?”.
– “Perché dovrei guardare le mie mani?”, gli aveva risposto Ferdinando.
– “Guardale e lo capirai”.
Guardando le proprie mani, Ferdinando si era accorto che erano sporche d’inchiostro.
– “Lo hai capito adesso perché non scendo mai in tipografia a prendere le copie del giornale appena uscite dalla rotativa? Meglio aspettare dieci minuti. L’inchiostro si asciuga. E non ti sporchi le mani. O, quanto meno, si sporcano meno”.
Morale: per evitare di sporcarsi le mani era meglio ritirare la copia del giornale in portineria.
Un consiglio che Ferdinando non ascoltò mai. A lui, invece, piaceva scendere in tipografia qualche minuto prima che la rotativa entrasse in funzione. Assisteva in religioso silenzio alle prove di stampa che precedono l’entrata in funzione della macchina che stampava il giornale. I tecnici che la mettono in moto. La rotativa che comincia a girare per pochi secondi per poi tornare a fermarsi. Giusto il tempo di far venire fuori le prime copie. La prova per controllare se tutto è a posto. A cominciare dall’inchiostro. Gli addetti alla macchina che verificano che nelle prime copie stampate non ci siano sbavature.
Dopo le prime prove e i controlli di rito, ecco il via.
“Possiamo partire”, diceva un tecnico.
A quel punto, la rotativa entrava in funzione. Nei primi secondi lentamente, poi sempre più accelerata. Fino a stabilizzarsi. A Ferdinando la rotativa che iniziava piano piano a girare per poi cominciare a stampare i giornali a pieno ritmo ricordava la partenza dei vecchi treni merci. Da ragazzo, a 8 o 9 anni, a Sciacca, quando poteva, si precipitava alla stazione per vedere il treno a vapore partire. Allora, in estate, abitava in una casa a due passi dal mare che, in linea d’aria, distava sì e no un chilometro e mezzo dalla stazione ferroviaria.
Alle tre e mezza del pomeriggio il treno a vapore, che veniva utilizzato per il trasporto di merci, partiva da Sciacca. Destinazione: Menfi. Per poi proseguire, così gli avevano detto, per Castelvetrano, un paese che conosceva solo di nome. Un paese che lo incuriosiva perché, come gli aveva detto suo padre, era lì che avevano ammazzato il bandito Salvatore Giuliano. Dieci minuti prima della partenza Ferdinando si avventurava verso la stazione. Avventurarsi era la parola giusta. Perché, per arrivarci, bisognava inoltrarsi per un percorso che definire accidentato era poco. Prima bisognava arrampicarsi lungo un terrapieno ripido. Raggiunta la sommità, giù a terra per oltrepassare il filo spinato che costeggiava le rotaie. Poi di corsa ai lati della strada ferrata. Arrivati in prossimità della stazione, di nuovo giù, ai bordi del terrapieno, per evitare di essere avvistati dal capostazione. Quindi di nuovo su, proprio all’altezza della stazione ferroviaria, attraversando di corsa le rotaie.
Grazie a quella scorciatoia, arrivava alla stazione in meno di cinque minuti. Giunto lì, si godeva la partenza del treno merci (a sinistra, foto tratta da magictichet.gh). Era lo stesso spettacolo che si ripeteva ogni volta che vedeva partire la locomotiva nera che sbuffava fumo: e ogni volta si emozionava. Sempre. Gli piaceva osservare la bacchetta di ferro alle due ruote che cominciava a muoversi. All’inizio piano piano e, poi, sempre più veloce. Restava alla stazione fino a che il treno non scompariva dopo le prime curve. Poi, quando il capo stazione rientrava nel suo ufficio, riprendeva la via del ritorno, respirando l’odore del fumo del treno.
Ripensava agli odori e alle sensazioni. Se, da un lato, la rotativa in funzione gli ricordava il treno a vapore, con emozioni quasi simili, doveva però ammettere che gli odori erano diversi. Sì, l’odore del fumo del treno merci era diverso da quello di inchiostro e piombo che si respirava in tipografia. Riflettendoci, Ferdinando era arrivato alla conclusione che a lui piaceva proprio l’odore d’inchiostro e di piombo. E gli piaceva, soprattutto, vedere uscire i giornali dalla rotativa. Anche quello era uno spettacolo. Come la partenza del treno merci. Erano tutt’e due momenti emozionanti.
Sdraiato sul letto nella piccola casa di Sciacca ripensava alle sedute notturne di Sala d’Ercole, la damascata sede del parlamento siciliano. Era proprio di notte che si approvano le leggi più ‘inturciuniate’. Cioè le leggi che, tra le pieghe di formule linguistiche incomprensibili, celavano imbrogli di tutti i generi e di tutte le specie. Ripensava alle lunghe notti passate nella sala stampa a leggere e rileggere gli emendamenti criptici.
– “Più breve e più criptico è l’emendamento – gli aveva spiegato Tonino – più grande è l’imbroglio che hanno architettato. Tocca a te scoprirlo e spiegarlo ai lettori”.
Pensava a Tonino, l’amico che non c’era più. Una grande assenza affettiva. E pensava a Federico. All’affetto che provava per l’amico napoletano. Al fatto che ancora, a distanza di anni, nessuno dei due sapeva com’era fatto l’altro. Ricordi, ricordi e ancora ricordi. Che non gli davano tregua.
Tutto sembrava andare a rotoli, in quei giorni. Con Eliana aveva chiuso definitivamente. Un disastro anche con Florinda, che l’aveva mollato. Lì, forse, aveva sbagliato qualcosa. Anzi, a pensarci, forse aveva sbagliato tutto. Aveva provato a fare chiarezza. Ed era scoppiato un quarantotto.
Vittorio, che conosceva la situazione, l’aveva avvertito:
– “Stai con Florinda e c’è Eliana che vuole vederti. Mi sembra normale. Devi incontrare Eliana, con la quale sei stato sette anni fidanzato. Ma non devi dire nulla a Florinda. Nulla”.
– “Dovrei raccontare una bugia”, aveva risposto.
Vittorio era scoppiato a ridere:
– “Bugie? Pensi ancora di essere all’asilo? Hai quasi trent’anni e parli ancora di bugie. Cerca di essere adulto”.
– “Insomma – aveva ripreso Ferdinando – non devo raccontare la verità”.
– “Scusa – l’aveva ripreso Vittorio – ma a chi non dovresti raccontare la verità?”.
– “A Florinda”.
– “A Florinda? E che c’entra Florinda? Non capisco”.
– “Dio santo, Vittorio: lo vuoi capire o no che ho già detto a Florinda che c’è Eliana che vuole rivedermi?”.
– “Gliel’hai detto? Ma sei veramente un cretino. Un idiota allo stato puro. Vai a raccontare alla tua donna che la donna con la quale stavi prima ti vuole rivedere. Cose da pazzi”.
– “Ma non c’è niente di male”, aveva aggiunto Ferdinando.
– “Non c’è niente di male per te, ma non per una donna. Tu di donne non capisci nulla. Zero”.
– “Che avrei dovuto fare?”, chiese sconsolato Ferdinando.
– “Te lo dico io quello che devi fare – riprese Vittorio -. Tanto per cominciare, stasera porti Florinda a cena fuori. Le dici che questa storia di Eliana che ti vuole rivedere è una buttanata. E che hai deciso di non incontrarla. Poi, tornato a casa, ti scopi Florinda con passione. La cosa non dovrebbe essere difficile perché è bellissima e tu le vuoi bene”.
– “Magari non ci crederai, ma fino a qui c’ero arrivato pure io”, aveva risposto Ferdinando. E poi?”.
– “Poi, senza dire nulla a Florinda, incontri Eliana. La devi incontrare. Glielo devi. Siete stati insieme più di sette anni e se chiede di incontrarti non puoi rifiutare”.
– “Mi ha chiesto di andare a cena”.
– “E allora?”.
– “E se poi mi propone un dopo cena?”.
Vittorio tornò a sorridere:
– “Lo vedi che sei indeciso? Se innamorato di Florinda. Ma senti di volere ancora bene a Eliana. E, te lo assicuro, è una cosa normale”.
– “Normale un tubo”.
– “E invece è normale. E se Eliana ti chiede di fare l’amore, ebbene, lo devi fare”.
– “Pure!”.
– “Lo dico per te. Devi capire chi ami veramente. Perché per ora sei solo confuso. Scopatele tutt’e due. Stai con entrambe per un certo periodo. Saranno i fatti a dirti con chi devi stare”.
– “Dovrei raccontare bugie e stare con entrambe? Vittorio, tu sei matto”.
– “Io matto? Bene. Allora vai da Florinda e dille che domani incontrerai Eliana. Appena farai questo, Florinda ti lascerà su due piedi. Tu, poi, proverai a tornare con Eliana. La cosa andrà male perché, secondo me, la tua storia con lei è finita. Morale: le perderai entrambe. E ti perderai un sacco di favolose scopate”.
Disteso sul letto nella sua casa di Sciacca, in penombra, Ferdinando ripensava alle previsioni di Vittorio. Che si erano rivelate esatte. Non aveva sbagliato una virgola.
Ferdinando aveva detto a Florinda che avrebbe rivisto Eliana. Non a cena, però. L’avrebbe incontrata per un the.
– “Non posso non vederla. Sono stato con lei oltre sette anni. Ha chiesto di parlare con me. Non posso rifiutarmi. Avrei potuto non dirti nulla. Apprezza il fatto che ti racconto tutto”.
Florinda era stata gelida:
– “Ti avverto: se la incontri non mi rivedrai mai più”.
– “Ma è una follia! – aveva obiettato Ferdinando -. La devo solo incontrare. Starò con lei mezz’ora. Ormai è acqua passata. Io voglio stare con te”.
– “E allora perché me l’hai detto?”.
La domanda di Florinda lo lasciò di stucco. Rimase qualche secondo in silenzio. La guardò. I suoi occhi erano piantati su di lui. Sembravano gli occhi di una tigre.
– “Sai – disse – non sono abituato a raccontare bugie…”.
Florinda non gli lasciò nemmeno completare la frase:
“Le bugie non c’entrano – gli disse -. Nei tuoi occhi, nelle tue parole e nel tuo modo di fare c’è enfasi e condivisione. E io non sopporterei nemmeno per un attimo che l’uomo che sta con me condivide qualcosa con un’altra donna”.
– “Non c’è enfasi e non c’è alcuna condivisione – replicò Ferdinando -. Solo un fatto di civiltà. La vedrò questo pomeriggio. Poi ti chiamo, così ti tranquillizzi”.
“Se la vedrai potrai anche evitare di chiamarmi”.
“Smettila di dire stupidaggini”.
L’incontro con Eliana, in effetti, creò a Ferdinando qualche problema. Non la vedeva da quasi un anno. Non era cambiata. Aveva sempre gli occhi da scoiattolo. E indossava il giubbotto che gli aveva regalato, molti anni prima, all’arrivo dei primi soldi da Napoli.
Era confuso. Mentre lei parlava, fissandolo negli occhi, Ferdinando cercava di capire se, pur stando con Florinda, gli era mancato qualcosa di Eliana. Sì, ammetteva tra sé e sé, qualcosa gli era mancata. Aveva ragione Florinda? Era stato un errore rivedere la sua ex fidanzata? Forse stava sbagliando tutto. Forse l’amore è più complicato della verità.
Rifletteva. Cercava di razionalizzare. Provava a capire se quello che di Eliana gli era mancato era un concentrato di nostalgia. O se c’era altro ancora. Si accorse che riusciva ad ascoltarla, a parlare con lei e, contemporaneamente, a confrontarsi con un flusso di coscienza: mille domande senza risposta, mille sensazioni, mille ricordi che andavano e tornavano nella sua mente. Diavolo di un Vittorio: ma come faceva a sapere queste cose su di lui? Gli leggeva nel pensiero? O erano cose semplici e lui era l’unico coglione a non capirle?
Quando Eliana si congedò da lui fu quasi una liberazione:
– “Se ti va chiamami – disse Eliana -. Il mio numero di telefono lo conosci”.
Tornando in redazione Ferdinando era sempre più confuso. Era meglio non dire nulla a Florinda? Ma sì, le avrebbe detto che, alla fine, aveva deciso di non incontrare Eliana. La sera avrebbero fatto l’amore e la cosa sarebbe finita lì. E con Eliana come si sarebbe comportato? Aveva ragione Vittorio? Avrebbe dovuto rivedere anche lei e, magari, fare l’amore pure con lei? Del resto, era stata proprio Eliana a ricordargli che conosceva il suo numero di telefono. Messaggio chiarissimo.
La redazione era deserta. Anche quella volta fu un attimo. Afferrò il telefono e compose il numero dell’abitazione di Florinda. Rispose lei al primo squillo. E’ evidente che aspettava la sua telefonata.
– “L’hai incontrata?”, le chiese.
Ferdinando, preso in contropiede, disse la verità:
– “Sì, siamo stati mezz’ora insieme. Normale. Tra qualche minuto sono sotto casa. Andiamo a cena fuori”.
La risposta di Florinda l’aveva lasciato tramortito:
– “Puoi anche fare a meno di passare. Stasera, domani e per il resto della vita”.
– “Smettila”, aveva risposto Ferdinando, cercando di sdrammatizzare.
Tutto inutile. Quella sera Florinda si rese irrintracciabile. L’indomani la chiamò tutto il giorno. Il suo telefono squillò vuoto. Preso dalla disperazione chiamò un’amica comune. Scoprendo, con sua sorpresa, che aspettava la sua telefonata.
– “Sai – le disse l’amica comune – ho un messaggio di Florinda per te. E’ spiacevole, ma te lo devo dire: ha lasciato qui da me le cose che tenevi a casa sua. Ci sono vestiti e libri. Passa quando vuoi”.
Ferdinando trovò la forza di rispondere scandendo ad una ad una le poche parole che riusciva a pronunciare:
– “E’ una follia! Aiutami tu. Parlale”.
– “Guarda, io in questa storia non voglio entrarci. L’unica cosa che posso dirti è che è molto determinata. Florinda la conosco bene. E’ una delle mie migliori amiche”.
– “Ma dov’è finita?”.
– “Non lo so”.
– “Ti prego, aiutami”.
– “Non posso fare nulla, credimi”.
Ripensava a quei giorni. All’amarezza di quei giorni. Aveva chiamato gli amici di Florinda. E le sua amiche. Ma aveva trovato un muro insormontabile. La determinazione di Florinda lo spaventava. Tanto dolce nella vita, tanto dura nel prendere e mantenere decisioni. Era stata inflessibile. Era inflessibile.
Florinda era originaria di un paese del Trapanese. In estate andava a mare in un luogo dove c’è una spiaggia immensa. Ferdinando aveva conosciuto questo tratto di costa grazie a lei. Quell’estate si era recato più volte in quel bellissimo posto di mare. Aveva percorso in lungo e largo la spiaggia. Alla ricerca di Florinda. Aveva passato lì intere mattine e interi pomeriggi. Ma non l’aveva trovata. Era come se Florinda si fosse volatilizzata.
Solo, nella vecchia casa buia di Sciacca (foto a destra, tratta da iha.it), Ferdinando meditava sui propri errori. Sì, ormai ne era certo: aveva sbagliato a dirle che avrebbe incontrato Eliana. Ripensava alla domanda che Florinda gli aveva posto quel maledetto pomeriggio poco prima che lui si recasse a incontrare la sua ex fidanzata:
“Perché me l’hai detto?”.
Quella domanda gli rimbalzava nella testa. Era un tormentone interiore. Era dolore. Solo dolore. Nient’altro che dolore.
Qualche settimana dopo, forse per cercare di capire che cosa gli stava succedendo, aveva chiamato Eliana. Erano usciti insieme per qualche giorno. Voleva capire che quello che provava per lei. Quello che doveva capire lo capì nel giro di qualche giorno: ciò che lo legava a Eliana non era più il sentimento di un tempo. Era nostalgia, solo nostalgia. Lo pensava lui. E lo pensava lei. Erano arrivati entrambi alla stessa conclusione. Insieme avevano deciso di non rivedersi.
Per onestà di cronaca – in fondo quella era la cronaca della sua vita – ne aveva parlato con Vittorio. Che era stato impietoso:
– “Come avevo previsto – gli aveva detto – non scopi più né con l’una, né con l’altra. Sei un perfetto coglione”.
La sua vita sentimentale era precipitata. E stava precipitando tutto il resto. Il giornale dove lavorava era entrato in crisi. E adesso Federico gli comunicava che per due mesi la sua firma doveva sparire dal supplemento economico dei napoletani. Gli sembrava che il mondo gli stesse crollando addosso.
Nel giornale dove lavorava il direttore era andato via. Si aspettava il suo sostituto. La situazione economica era pesante. Gli stipendi di marzo erano stati pagati a metà aprile. E a fine maggio non c’era né lo stipendio di aprile, né quello di maggio. Il futuro era un’incognita. Ora perdeva pure le quattrocento mila lire al mese dei napoletani. Peggio di così non poteva andare.
Il pomeriggio si sarebbe dovuto recare a Menfi, un paese a qualche chilometro da Sciacca. Due giorni prima aveva ricevuto una telefonata da un suo amico. All’inizio aveva declinato l’invito. Di lavorare non gli andava proprio. Poi, dopo le insistenze del suo amico aveva ceduto. In fondo, aveva pensato tra sé e sé, era pur sempre un modo per distrarsi.
– “Qui a Menfi la gente è impaurita – gli aveva detto al telefono il suo amico -. Vogliono piazzare tubi enormi in tutta la città. Devi venirli a vedere: sono impressionanti. Hanno un diametro così largo che ci passa un’automobile”.
– “Che devono fare con ‘sti tubi?”, aveva chiesto Ferdinando.
– “Ma, dicono una condotta idrica”.
– “Una condotta idrica con una portata così grande?”.
– “Ferdinando, non lo so. So che qui la gente è impaurita. Non vogliono questi enormi tubi sotto il pavimento di casa. Per farti un’idea di quello che sta succedendo devi venire a Menfi”.
Disteso sul letto, Ferdinando pensava al bordello che avrebbe trovato a Menfi. E si chiedeva, soprattutto, su quale giornale avrebbe dovuto raccontare questa nuova storia. Con questi pensieri in testa si addormentò.
La punizione napoletana durò due settimane. Il lunedì, intorno a mezzogiorno, Sabato gli annunciò la telefonata da Napoli. Era la seconda telefonata della giornata che arrivava dai napoletani. La prima era arrivata circa mezz’ora prima. Era Federico. Con l’amico napoletano si erano sentiti la settimana prima. Gli comunicava che, ancora una volta, avrebbero dovuto rimandare l’appuntamento. Non poteva venire in Sicilia. Motivo: si sentiva poco bene. Tanto per cambiare, l’avevano presa a ridere.
– “Riposati – gli aveva detto Ferdinando -. Vai in vacanza. A settembre riprendiamo. Ti giuro che questa volta ci vedremo. Sarai ospite mio qui a Napoli”.
Quel lunedì l’aveva richiamato per dirgli che andava a Milano per un consulto medico.
“Nulla di importante – gli aveva detto -. Un normale controllo. Quando ritorno ti chiamo. Sarò in ferie. Sarai ospite a casa mia per un paio di giorni. Così mettiamo la parola fine a questa amicizia telefonica”.
Si erano salutati sorridendo. Mezz’ora dopo arrivò la seconda telefonata da Napoli. Ferdinando non se l’aspettava.
“Sì”, disse appena ebbe in linea la chiamata.
– “Ciao Ferdinando, sono Roberto”.
Roberto era uno dei redattori del supplemento economico napoletano. Per la precisione, era il cronista di punta. Uno bravissimo. Si conoscevano. Perché Roberto era sceso un paio di volte in Sicilia. Non molto alto, capelli neri e lisci, sguardo vivacissimo, era un uomo che Ferdinando classificava tra gli “accelerati”. Gente che nella vita non vuole perdere tempo. Soprattutto sul lavoro.
“Che abbiamo ‘sta settimana, Ferdinando? Come saprai, Federico non c’è e il giornale lo faccio io”.
Ferdinando era stato preso alla sprovvista:
– “Sai, per ora c’è qualche problema…”, balbettò.
– “Problema? Che problema?”.
– “Il servizio di due settimane fa, quello sul programma dinamico… Il tuo direttore si è incazzato. Ha detto che devo sparire per due mesi”.
– “Sparire per due mesi? E perché? Senti, a me di ‘sta diavoleria dinamica che hai scritto non mi fotte niente. Io devo fare il giornale. E non posso lasciare fuori la Sicilia. Dimmi quello che vuoi fare che ho fretta, dai”.
– “Ma…”.
– “Dai, sbrigati”.
Ferdinando era felice. Quanto meno ci sarebbero stati i soldi dei napoletani. Però in quel momento era impreparato. Non si aspettava la telefonata. Non sapeva che argomento proporre a Roberto. Il pezzo di Menfi sui tubi? Sarebbe stato un suicidio. Era la storia, tutta siciliana, di una condotta idrica rigorosamente inutile. Soldi gettati al vento. Già aveva armato un casino con il programma dinamico. Non era il caso di aprire un nuovo mezzo bordello con un appalto miliardario in salsa truffaldina.
Questi pensieri gli mulinavano nella mente mentre, dall’altra parte del telefono, Roberto impartiva direttive in redazione. Non aveva comunque molto tempo. Infatti un attimo dopo Roberto tornò a incalzarlo:
– “Allora che abbiamo dalla Sicilia?”.
– “Ci sono i Cantieri navali di Palermo che dovrebbero prendere una grossa commessa da Trieste”, disse Ferdinando.
– “Che commessa?”.
– “Ma, ancora non è chiaro. Forse la riparazione di una petroliera”.
– “Come forse? Che facciamo un’apertura di pagina sui forse? A Ferdinà, io voglio una notizia. No-ti-zia. Lo sai cos’è una notizia che ancora non è venuta fuori?”.
A questo punto Ferdinando ruppe gli indugi. Nei giorni precedenti si era recato a Menfi. Aveva raccolto un sacco di materiela. Gli abitanti ereano incazzati neri per la storia dei tubi. Se ne parlava molto tra la gente di quei luoghi. Ma i giornali avevano ignorato tutto.
– “Una bella storia ce l’ho – disse Ferdinando -. Una storia da centoventiquattro miliardi di lire che verranno gettati al vento. Ti basta?”.
– “Dimmi”, aveva risposto Roberto dall'altra parte del telefono.
– “Ci stanno due dighe artificiali: una a Sambuca, in provincia di Agrigento, e l’altra a cavallo tra la provincia di Palermo e quella di Trapani. La prima diga funziona, la seconda è ancora in costruzione dopo quasi venticinque anni”.
– “Venticinque anni! – esclamò Roberto -. Che è, la solita opera pubblica lasciata a metà? Già questa storia è interessante. Continua”.
– “Hanno deciso di collegare le due dighe. Con una condotta che i tecnici definiscono ‘volante’. Non mi chiedere che significa ‘volante’ perché non lo so. La notizia è che questa condotta che stanno già realizzando ha un diametro enorme. Negli ultimi anni in Sicilia ha piovuto pochissimo. L’acqua viene distribuita con il contagocce alle città e alle campagne. E questi realizzano una condotta che potrebbe servire per convogliare le acque delle cascate del Niagara. Una follia. Ho pure beccato la fotografia con uno di questi tubi con dentro una macchina”.
– “Aspetta, una cosa del genere l’hai già fatta”, obiettò Roberto che aveva una memoria di ferro.
– “E’ vero, quello è un servizio che ho fatto sempre per voi circa due anni fa. Allora avevamo fotografato una Fiat Panda dentro i tubi della condotta che stanno realizzando sui Nebrodi. Questa, però, è un’altra storia”.
– “Ma sempre ‘sti tubi così grandi. Perché?”.
– “Perché più grandi sono i tubi, maggiore è il quantitativo di terra che si deve togliere. E i movimenti di terra si pagano a peso. Anzi, a peso d’oro. Per la felicità della mafia che li gestisce. Ma c’è di più”.
– “Cioè?”.
– “Stanno facendo passare questi enormi tubi da un paese. Gli abitanti, neanche a dirlo, sono terrorizzati. Non vogliono vivere con questi immensi tubi sotto il culo. Non credono che servano per l’acqua, perché lì l’acqua è sempre stata sempre razionata. E’ nato un comitato cittadino contro i tubi. Anche perché Menfi, questo il nome del paese, è uno dei centri della valle del Belìce distrutti dal terremoto del 1968 e ancora parzialmente ricostruito. Zona sismica, insomma. Per questo la gente ha paura. Se poi aggiungiamo che dal territorio di Menfi passa pure il metanodotto tra Algeria e Sicilia la frittata è fatta”.
-“Ha scritto già qualcuno su questa storia?”.
– “Figurati. Qui non vogliono rogne. Ho provato a far passare questa inchiesta nel mio giornale. Ma i miei capi nicchiano…”.
– “Quando hai scritto l’inchiesta per il tuo giornale?”.
– “Una decina di giorni fa”.
– “E non l’hanno ancora pubblicata”.
– “Già”-
– “Perché?”.
– “Forse perché a realizzare i lavori in società con un gruppo chiacchierato c’è anche un’impresa vicino alla sinistra. E, come tu sai, il mio è un giornale di sinistra”.
– “I soldi, ovviamente, sono quelli dell’Agensud”, disse Roberto.
– “Ovviamente. Come ti ho detto, 124 miliardi di lire”.
– “Vabbè vabbè, Federì, fai centoventi righe più un appoggio di cinquanta e manda tutto giovedì. Le fotografie, invece, me li devi spedire oggi stesso. Mettici l’automobile dentro il tubo. Vacci pesante. Massacrali. La devono smettere di sperperare le risorse destinate al Mezzogiorno”.
Ferdinando era felice. Con la nuova direzione del suo giornale non si ‘prendeva’ proprio. Aveva consegnato l’inchiesta da una decina di giorni. Ma di pubblicarla non se ne parlava. Aveva chiesto notizie al nuovo capo redattore. Che gli aveva risposto in toni evasivi:
– “Sai, la storia è complicata. Dovresti fare alcuni approfondimenti”.
Secondo Ferdinando, non c’era niente da approfondire. Con la condotta ‘volante’ si stavano soltanto rubando 124 miliardi di lire. Punto. Ma siccome non voleva lasciare nulla di intentato, aveva deciso di ‘approfondire’. Così aveva preso appuntamento con un ingegnere. Un personaggio che gli era stato segnalato da un amico del caporedattore. Sentendo il suo nome Ferdinando aveva fatto finta di non conoscerlo. In realtà, lo conosceva benissimo. Era, come si dice in Sicilia, un ‘truffaldo’. Cioè un mezzo bandito. Un tecnico che si occupava di appalti per conto delle imprese della sinistra. Tecnicamente, un ladro. Che, a differenza di altri ladri che aveva conosciuto, divideva una parte della ‘refurtiva’ con il partito al quale faceva capo.
Ma di questo a Ferdinando non gliene poteva fregare di meno. Da circa sei mesi era stato designato nel comitato di redazione del suo giornale. Parlava spesso con i suoi editori. Analizzando la situazione, aveva capito che il quotidiano nel quale lavorava da quasi dieci anni di lì a poco avrebbe chiuso i battenti. Era solo questione di tempo. Forse qualche settimana.
Aveva un sacco di ferie arretrate. Così aveva chiesto dieci giorni di ferie. A partire proprio dal successivo giovedì, il giorno in cui si sarebbe recato a Menfi per la verifica.
Fine parte VIII/ continua