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April 11, 2015
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Il racconto-Federico parte III/ I colori di Selinunte e la luce e il degrado ambientale di Lampedusa

Giulio AmbrosettibyGiulio Ambrosetti
Time: 7 mins read

Questa è la terza puntata del racconto. Qui la prima e la seconda puntata.

Il servizio sui matti che sparavano alle nuvole era stato un successo. Ferdinando era riuscito pure a trovare un tecnico – che ovviamente spacciò per israeliano – che nel pezzo d’appoggio aveva approfondito l’argomento. Federico gli aveva fatto i complimenti.

“Poi, naturalmente, raccontiamo il seguito”, gli aveva detto al telefono.

Ma il seguito non ci fu mai. Perché l’esperimento, stando a quanto gli dissero i tecnici, non era poi andato così bene. Lo ioduro d’argento era stato sparato tra le poche nuvole che in quegli anni si degnavano di malavoglia di colorare i cieli siciliani. Ma di piogge non se n’erano viste. Anzi, proprio in quei giorni, a Palermo, la siccità non aveva dato tregua.

Arrivò l’estate. Federico e la sua famiglia avevano cambiato itinerario. Non erano più scesi in Sicilia. Alle isole Eolie avevano preferito un’altra meta. Ferdinando era rimasto un po’ deluso. Ormai con Federico si sentivano almeno due volte ogni settimana. Per parlare di lavoro. Ma anche perché era nata una simpatia reciproca. Ci teneva a conoscerlo, insomma. Appuntamento che era stato rimandato.

E dire che si era fatto anche un’idea di come avrebbe dovuto essere Federico. In questo l’aveva aiutato Vittorio. Che era volato a Napoli per lavoro.

– “Sai, visto che vado a Napoli faccio un salto da Federico. Te lo saluto”, gli aveva detto prima di partire.

Quando Vittorio era tornato, Ferdinando l’aveva subito interrogato:

– “Hai visto Federico?”.

– “Certo”, aveva risposto Vittorio.

– “Sono andato a trovarlo all’Università. Sono arrivato in anticipo e mi sono sciroppato un pezzo della sua lezione. Economia politica. Spiega bene. Utilizza un linguaggio chiaro”.

– “Com’è?”, aveva chiesto Federico.

– “Che significa com’è?”.

– “Che tipo è? Alto? Basso?”.

Vittorio si era messo a ridere.

– “Adesso lo vuoi pure descritto? Non è molto alto. Ma non è nemmeno basso. Altezza media, diciamo”.

– “Ti ha chiesto di me?”.

– “Certo. Ti saluta affettuosamente. Anche lui ti vuole conoscere”.

Invece quell’estate Federico era rimasto l’amico del telefono. Pazienza. A fine settembre il settimanale economico era tornato in edicola. Ed erano tornate, puntuali, le telefonate tra Ferdinando e Federico.

Di lavoro parlavano poco e velocemente. Ferdinando proponeva il pezzo e Federico era sempre d’accordo. Ormai erano in perfetta sintonia. Ferdinando sapeva cosa volevano i napoletani. Ogni tanto, oltre a banche e menate simili, si concedeva qualche storia siciliana. Che veniva accettata.

Dopo il punto della situazione sul servizio della settimana parlavano d’altro. Ferdinando gli descriveva la Sicilia: Palermo, Trapani, Segesta, Selinunte. Federico voleva sempre notizie di Selinunte. L’aveva vista una volta, quando ancora l’area archeologica non era stata istituita.

“Devo tornare a Selinunte”, diceva. “Ci devo tornare con la mia famiglia. E tu ci farai da guida”.

Ferdinando gli raccontava delle giornate che passava a Selinunte.

– “E’ sempre bella – gli diceva -. Ma in primavera e in estate è ancora più bella. Con il bel tempo il tramonto a Selinunte è uno spettacolo. Il sole va giù proprio sul mare. La luce cambia con una velocità che non è facile immaginare se non sei lì. E cambia il modo di vedere il paesaggio. Sotto il sole le colonne del tempio brillano. Man mano che il sole scende verso il mare il rosso prende il sopravvento sul giallo ocra. Anche le colonne cambiano colore. Tutto attorno cambia colore. A un certo punto il sole diventa una palla rossa. Lo puoi fissare, perché la poca luce non crea più fastidio agli occhi. Se fissi lo sguardo sulla palla rossa la vedi scendere piano piano sotto la linea dell’orizzonte. A me piace guardare il sole e poi il tempio. E poi ancora il sole e poi ancora il tempio. Continuo così fino a quando il sole viene inghiottito dal mare. Poi rimango seduto in silenzio. Vado via quando la poca luce rimasta mi consente di trovare l’uscita”.

Federico lo stava a sentire senza parlare. Quando Ferdinando completava le descrizioni, l’amico, dall’altra parte del filo, sussurrava:

“Dobbiamo andare insieme a Selinunte. Voglio venire giù con la mia famiglia. Ci dobbiamo godere insieme un tramonto”.

Ci fu un tempo – Ferdinando era ancora un ragazzo – in cui l’accesso nell’area archeologica di Selinunte era praticamente libero. Poi la zona era stata delimitata. Alle diciotto del pomeriggio l’ingresso veniva sbarrato.

Ferdinando non riusciva a capire perché veniva precluso l’ingresso ai visitatori al tramonto, cioè nel momento più bello. Una volta l’aveva chiesto al Sovrintendente. La risposta era stata laconica:

“Per tenere aperto l’ingresso al tramonto ci vogliono le luci. Dopo il tramonto arriva il buio e non puoi tenere i visitatori al buio”.
“Si potrebbe fissare la chiusura subito dopo il tramonto, quando ancora c’è luce”, aveva obiettato Ferdinando.

Ma il Sovrintendente era stato irremovibile:

“Non si può. Se qualcuno si attarda resta al buio. E la responsabilità sarebbe nostra”.

– “Nella tua isola sono proprio matti – gli aveva ancora una volta ribadito Federico -. Impedire ai turisti di godersi Selinunte al tramonto, cioè nel momento più bello: mi sembra una follia! A parte il fatto che potrebbero mettere l’impianto di illuminazione”

– “A dir la verità – aveva ripreso Ferdinando – qualche palo della luce c’è. Si trova all’esterno dell’area archeologica. Ma, credimi, non è questione di energia elettrica. Sai cosa mi ha risposto un sindacalista quando ho posto la questione?”

– “Cosa ti ha risposto?”

– “Mi ha detto: caro amico, i dipendenti, la sera, cenano e poi vanno a letto”.

– “Tutti la sera ceniamo e poi, ora più ora meno, andiamo a letto – aveva replicato Federico -. Ma se c’è da fare un turno serale, o al limite notturno, si fa. Il lavoro è lavoro”.

– “Forse lì a Napoli è così – aveva risposto sorridendo Ferdinando -. Ma qui in Sicilia tutto si complica. Dare la possibilità ai turisti di godersi il tramonto a Selinunte è un elemento secondario, quasi ininfluente. Qui il punto è un altro”.

– “E qual è?”, aveva chiesto incuriosito l’amico.

– “Qui devi convincere prima i sindacati che tenere aperta l’area archeologica fino alle nove di sera è giusto. E già è difficile. Poi i sindacalisti devono convincere i dipendenti a lavorare fino alle ventuno invece che fino alle diciotto. E questo è difficilissimo. E, in ogni caso, l’amministrazione regionale dovrebbe pagare i turni serali. E questo è impossibile, perché i burocrati rispondono che non ci sono soldi”.

– “Facciamo un’inchiesta. Solleviamo un caso nazionale”.

– “Ci possiamo pure provare. Ma sappi che è praticamente inutile. Da qualunque parte la giri, insorgono difficoltà. Io ormai, caro Federico, ho perso la speranza”.

Ogni tanto parlavano anche di Sciacca, il paese della famiglia di Ferdinando.

“Sciacca – diceva all’amico napoletano – è il paese del mare  verde”.

– “Sei sicuro che lì a Sciacca il mare è verde? – gli aveva chiesto Federico -. Io la Sicilia l’ho girata. Il mare verde, se non ricordo male, l’ho incontrato dalle parti di Siracusa. Lì tutti vanno a Fontane Bianche. Io invece preferisco Brucoli e, soprattutto, Noto marina”.

– “Anch’io amo Noto marina – aveva risposto Ferdinando -. C’è un hotel un po’ malandato dove vado a dormire. Anche lì il mare è verde. Ma è verde anche  Sciacca”.

Spesso parlavano delle sfumature. Ferdinando chiedeva notizie di Capri. A Federico Capri non andava giù.

– “E’ bella, per carità – diceva. – Ma è proibitiva. E’ un’isola per ricchi. Appena ci metti piede, ti bruci. Per stare a Capri i soldi non ti bastano mai”.

– “Però il paesaggio deve essere meraviglioso”.

– “Questo sì. I colori e il paesaggio sono unici. Ed è anche tenuta bene. Ma resta un’isola per ricchi. Preferisco altre isole”.

Una volta la discussione era caduta su Lampedusa. I due amici avevano scoperto di avere avuto un’impressione comune: il chiarore della luce. A Lampedusa la luce è particolare. E’ bianca, trasparente. Tutt’e due erano rimasti incantati dall’isola dei conigli. Un luogo magico. Il mare azzurro: la spiaggia bianca dove depongono le uova le tartarughe: l’isolotto che si staglia proprio di fronte questo spettacolare tratto di costa: il vento che accarezza questi luoghi, ora dolcemente, ora impetuosamente. E i gabbiani, tanti gabbiani che sono i veri padroni di questo angolo di Lampedusa.

Ferdinando era un appassionato di isole. Un giorno, nel corso di una chilometrica telefonata, raccontò all’amico che Lampedusa è destinata ad essere inghiottita dal degrado.

– “E’ l’isola più trasandata tra tutte quelle che conosco. Ovunque affiora la roccia madre. Questo significa che il suolo agrario non c’è più. Finito. Inghiottito dalla desertificazione che avanza”.

– “E non fanno niente?”, aveva chiesto Federico.

– “In Sicilia di questi problemi non gliene frega niente a nessuno. Figurati. Anzi, per la verità, una cosa l’hanno fatta”.

– “Cosa?”.

– “Hanno sbaraccato la forestale”.

– “Che significa?”, aveva chiesto Federico.

– “Significa che hanno chiuso l’unico presidio che avrebbe potuto fare qualcosa per provare a frenare la desertificazione di Lampedusa piantando alberi e cercando di tutelare quel poco di suolo rimasto. Ovvero quei pochi lembi dell’isola dove è ancora possibile far crescere le piante. Un delirio”.

– “Tu sul tuo giornale queste cose le hai scritte?”, gli aveva chiesto Federico.

– “Naturalmente”, aveva risposto Ferdinando. 

– “E non è successo niente”.

– “Appunto”.

Quella volta Federico si era un po’ incazzato e gli aveva commissionato un’inchiesta sul degrado ambientale di Lampedusa. Ferdinando aveva confezionato un bel servizio: un pezzo pilota di centottanta righe più due appoggi di sessanta e cinquanta righe. Un paginone, insomma. Dopo aver illustrato la desertificazione che avanzava giorno dopo giorno, per provare a rendere più drammatica la situazione aveva scritto che Lampedusa, nel giro di alcuni decenni, avrebbe fatto la fine di Lampione, il grande scoglio privo di vegetazione che dista qualche miglio da Lampedusa.

A Lampedusa, ovviamente, quella volta non aveva messo piede. Ma siccome conosceva bene l’argomento, a parte Federico che sapeva come stavano le cose, il servizio passò per reportage.

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Giulio Ambrosetti

Giulio Ambrosetti

Sono nato a Palermo, ma mi considero agrigentino. Mio nonno paterno, che adoravo, era nato ad Agrigento. Ho vissuto a Sciacca, la cittadina dei miei genitori. Ho cominciato a scrivere nei giornali nel 1978. Faccio il cronista. Scrivo tutto quello che vedo, che capisco, o m’illudo di capire. Sono cresciuto al quotidiano L’Ora di Palermo, dove sono rimasto fino alla chiusura. L’Ora mi ha lasciato nell’anima il gusto per la libertà che mal si concilia con la Sicilia. Ho scritto per anni dalla Sicilia per America Oggi e adesso per La Voce di New York in totale libertà.

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