Questa è la seconda puntata del racconto 'Federico' (qui potete leggere la prima puntata)
Il primo servizio filò liscio. Al telefono, Federico si disse soddisfatto:
– “Certo, qualche numero in più non avrebbe guastato”, precisò il redattore di ‘Lettera Sud’. “Ricordati che quando scrivi di economia, e soprattutto di banche, le cifre sono fondamentali: raccolta, impieghi, numero di sportelli e via continuando. In ogni caso – concluse Federico – hai il senso della notizia. Già è una cosa importante”.
Rimasero d’accordo che si sarebbero sentiti la settimana successiva. Il primo impatto era andato bene. Vittorio si congratulò con lui:
– “Hai visto? Tutto a posto. Non te lo dovrei dire. Sappi che ieri Federico mi ha chiamato. Era contento. Gli vai a genio. Dice che sei simpatico. E io sono contento. Per te che hai una nuova collaborazione. E per me. Non sai che scocciatura mi hai tolto. Dai, andiamo in sala corse che sta partendo la prima corsa di Roma”.
Alto, occhi castani, capelli castani che andava perdendo, Vittorio era il classico uomo-macchina del giornale. Faceva di tutto. Scriveva, titolava i pezzi, scendeva in tipografia a chiudere le pagine. Passava dalla cronaca all’economia, dalla nera alla giudiziaria, dalla politica allo sport. Da qualche tempo l’avevano dirottato al supplemento economico. Ventiquattro pagine che andavano in edicola ogni venerdì con il dorso del giornale. Nella Sicilia degli anni ’80 era forse l’unica realtà editoriale che provava a raccontare il mondo dell’economia, dalle imprese alle banche, dal commercio all’agricoltura.
Al giornale tenevano molto al supplemento economico. Non era un caso se per realizzarlo avevano piazzato all’economia Vittorio e Enzo, considerati bravi. A differenza di Vittorio, nato e cresciuto a Palermo, metropolitano fino al midollo, Enzo, capelli neri, occhi neri dietro occhiali spessi, arrivava dalla provincia. Anche Enzo era un uomo macchina. Grande lavoratore. E grande lettore. Quando non scriveva o non passava pezzi leggeva. Giornali, settimanali e, soprattutto, libri. Bastava guardarlo in faccia un attimo per capire che avevi davanti uno che aveva letto un sacco di libri.
Enzo parlava poco. Mai a sproposito. Le sue precisazioni, le sue battute erano affilate come lame. Amava scrivere. Amava profondamente il suo lavoro. Anche Vittorio scriveva bene. Solo che negli ultimi anni non ne voleva più sapere di mettere giù articoli. Si annoiava. Al giornale faceva il caposervizio. E si era liberato delle collaborazioni. Ogni tanto, quando proprio non ne poteva fare a meno, firmava qualche pezzo per il supplemento economico. Quel poco che bastava per non fare scomparire la sua firma.
Enzo, invece, scriveva. Spesso i suoi servizi erano l’apertura del supplemento. E anche della pagina economica quotidiana del giornale. Ogni settimana Ferdinando contava almeno due o tre telefonate di gente che chiedeva la collaborazione di Enzo. Che rifiutava regolarmente.
Enzo collaborava solo con ‘Il Mondo’. Poi, ogni tanto, scriveva qualche pezzo per un mensile siciliano di agricoltura che si chiamava ‘Sicilia verde’. E questo per Ferdinando era un mistero.
Un giorno chiese a Enzo:
– “Come mai scrivi per ‘Sicilia Verde’?”.
– “Secondo te perché ci scrivo?”, gli aveva risposto Enzo.
– “Perché ti piace l’agricoltura”.
– “L’agricoltura è un settore affascinante. Ma non è per questo che scrivo per Canzonetta”.
Canzonetta era il nomignolo con il quale Enzo chiamava l’editore e direttore di ‘Sicilia Verde’. Anche Ferdinando collaborava con quella testata. Canzonetta, quando andava bene, lo pagava cinquanta mila lire per ogni servizio di approfondimento. Mentre Enzo veniva pagato centocinquanta mila lire per ogni articolo. Che allora non erano pochi.
– “Scrivi per Canzonetta perché ti paga bene”, gli aveva detto Ferdinando.
– “No, scrivo sul suo mensile per liberarmene. Mi prende per stanchezza. E’ l’unico che non molla nemmeno dopo il terzo o quarto no. Mi tortura. Alla fine cedo. Per stanchezza. Ma non pensare che sia una questione di soldi. Tra l’altro, scrivere di agricoltura non è facile. Ogni volta mi devo documentare. Telefonate a ripetizione. Visite nelle aziende. E carte da leggere. Tu ne sai qualche cosa, visto che ti occupi di questo settore”.
Ferdinando studiava i pezzi di Enzo. A cominciare dagli attacchi. Ovvero l’inizio di un articolo. L’attacco, appunto. In sei o sette righe devi dare la notizia. Le famigerate cinque W: come, dove, quando, chi e perché. In questo Enzo era insuperabile. I suoi attacchi erano sempre splendidi.
– “Ricordati – gli disse una volta Enzo -: se l’attacco funziona, funziona tutto il pezzo. Se hai illustrato bene la notizia nelle prime righe, significa che padroneggi l’argomento di cui ti stai occupando”.
Vittorio e Enzo, oltre al supplemento, confezionavano ogni giorno la pagina di economia del giornale. Lavoravano in tandem. In perfetta sintonia.
La sede del quotidiano si trovava al primo piano di un palazzo nel centro della città. La redazione del supplemento economico era stata ricavata in una specie di ammezzato. Due stanze appena. Tre scrivanie nella prima e altre tre scrivanie nella seconda. Tutte regolarmente sgangherate. Ma ancora più sgangherati erano i due armadietti della seconda stanza dove Enzo e Vittorio tenevano le loro cose.
Sulla scrivania di Enzo c’era una macchina da scrivere. E un’altra macchina da scrivere stava sulla scrivania di Vittorio. Nella stanza accanto, dove armeggiavano i collaboratori, c’erano tre macchine da scrivere. Una era rotta da tempo immemorabile e non era mai stata riparata. Una seconda funzionava bene, mentre la terza aveva una tastiera che andava a giorni alterni. Morale: quando nella redazione del supplemento economico c’erano più di due collaboratori che dovevano scrivere, uno doveva attendere che l’altro finisse il pezzo.
Il guaio era che, soprattutto nei due giorni che precedevano la chiusura in tipografia del supplemento economico, i collaboratori presenti erano sempre quattro o cinque. Vittorio cedeva la sua macchina da scrivere. Chiedeva solo che venisse trattata bene. Se qualche collaboratore la sfasciava, le sue urla si sentivano fino al primo piano.
Enzo non cedeva volentieri la sua Olimpia Olivetti. Era gelosissimo della sua macchina da scrivere. Raramente invitava qualche collaboratore a utilizzarla. Se ciò accadeva, per il destinatario dell’invito era un onore. Significava che avevi la sua fiducia. Che doveva risultare ben riposta. Enzo non avrebbe tollerato il benché minimo danno alla sua Olimpia.
Di solito, dopo che le prime copie del giornale erano appena uscite dalla rotativa, Ferdinando andava a casa a mangiare. O prendeva un piatto di pasta al volo con Vittorio. Per poi tentare la sorte alle corse dei cavalli. Ogni tanto si recava all’ippodromo. Trotto, perché a Palermo c’è solo quello. Ferdinando ne masticava un po’. In sala corse andava da quando c’erano i collegamenti televisivi. Giocare e vedere la corsa in diretta gli piaceva. Mentre prima, con le telescriventi, senza immagini, non si divertiva affatto.
Vittorio era un vero esperto di galoppo. Frequentava la sala corsa da tanti anni. Gli piacevano anche le cronache fatte dalle telescriventi.
– “Quando la cronaca di una corsa è scritta bene ti fa sognare”, diceva.
Conosceva tutti i campi italiani. E tutti i fantini. Sul galoppo ne sapeva una più del diavolo. Leggeva ogni giorno il giornale dei cavalli. Prima di giocare s’informava sullo stato della pista: se era pesante perché pioveva, o se il terreno era buono perché splendeva il sole. Nelle corse al galoppo lo stato del terreno è fondamentale. E’ così anche per il trotto, s’intende. Ma nel galoppo lo stato della pista forse conta di più che nel trotto. O almeno così a Ferdinando era sembrato di capire.
– “Nel galoppo anche un lievissimo allentamento della pista fa la differenza tra i cavalli in corsa”, gli spiegava l’amico.
Ferdinando seguiva e imparava. Ma non si appassionava. Lui era cresciuto con il trotto. Sergio Brighenti, Giancarlo Baldi, Nello Bellei, Walter Baroncini, William Casoli erano i suoi idoli. Il trotto gli entrava nell’anima. Il galoppo gli veniva difficile da mandare giù. Per seguire una corsa di galoppo devi avere occhio. Un arrivo di quattro-cinque cavalli che galoppano a pochi centimetri l’uno dall’altro è un casino. Ferdinando non ci capiva niente. Il trotto, invece, appariva a Ferdinando più lineare. Più geometrico. Più ordinato.
Ogni tanto si univa a loro Angelo. Era un vecchio redattore che nella vita professionale ne aveva viste di tutti i colori. Aveva lavorato in un sacco di giornali. Anche fuori dalla Sicilia. Scriveva benissimo. Da anni faceva il caposervizio nel giornale del pomeriggio dove collaborava Ferdinando. Angelo le notizie le respirava. Conosceva la città a memoria. E quando nei periodi di stanca – per esempio ad agosto – reggeva la cronaca cittadina, riusciva ogni giorno chissà come a trovare una buona apertura.
Ferdinando era affascinato dall’anticonformismo di Angelo. Era un giornalista libero. Un uomo libero. E un grande professionista. Metabolizzava le cose che non gli piacevano. Se doveva fare una cosa, la faceva e basta. Un grande uomo della carta stampata. Preciso e meticoloso.
– “Il lavoro è lavoro”, diceva.
Poi esprimeva il suo parere. Magari al bar. O davanti a un piatto di pasta. Parole che spesso erano un concentrato di vetriolo. Le sue considerazioni sulle cose che non gli garbavano erano puntute. Mai banali. A distanza di tempo, quando i fatti si chiarivano, si scopriva che aveva quasi sempre ragione.
Angelo era già un uomo maturo. Un tipo da giacca, nella classificazione di Ferdinando. Non era alto. Aveva i capelli neri con qualche filo bianco sparso qua e là. La barba, invece, era più argentata che nera. Camminava lentamente. Fumando una sigaretta dietro l’altra. Le sua camicie erano sempre impeccabili. Con cravatte sempre a tono. E con giacche di stoffa inglese, pantaloni con la piega e scarpe rigorosamente inglesi.
Era sempre ben vestito. Gli uomini eleganti, di solito, sono meticolosi. In tutto. Lo sono, è ovvio, per come si vestono. E lo sono pure quando camminano, quando parlano, quando fumano. A tavola cercano di non sbrodolarsi. Idem al bar quando sorseggiano un caffè. Angelo era preciso solo sul lavoro. E nel vestirsi. A tavola, invece, si sbrodolava spesso. Al bar pure. E quando fumava la cenere sembrava prendere di mira giacca, camicia e cravatta. Soprattutto quando camminava con la sigaretta accesa tra le mani. Cioè quasi sempre. Eppure Angelo era sempre in ordine. Segno che dietro di lui ci doveva essere una donna che non lo perdeva di vista un istante. E infatti c’era sua moglie che lo adorava. Ogni uomo, pensava Ferdinando, dovrebbe avere accanto una donna come la moglie di Angelo.
Quando Ferdinando e Vittorio si univano ad Angelo, l’itinerario mutava. Niente spaghetti al volo. O non si mangiava, o si prendeva qualcosa dai ‘Pacchioni’. Questo era un piccolo ristorante a due passi dal giornale. Lo gestivano due signori garbati un po’ su di peso. Da qui il nome affibbiato al locale. Dopo il pranzo si andava a scommettere ai cavalli. Ma non nella sala corse che sta sotto i portici della piazza che si snodava a due passi dalla sede del giornale. Angelo infatti era un po’ esteta. Anche nel gioco dei cavalli. Si prendeva posto in auto e si andava a Mondello. Lì, a due passi dalla riserva naturale di Capo Gallo, c’era una sala corse non molto frequentata, soprattutto in inverno. Angelo amava quel posto. Appena arrivati, Vittorio s’immergeva subito nel gioco. Angelo, invece, invitava Ferdinando al bar dell’hotel La Torre. L’hotel dista un centinaio di metri dalla sala corse. Angelo ordinava bourbon. Ferdinando si accodava. Restavano assorti a sorseggiare il cognac. Fumando non meno di due sigarette a testa. Poi, via a scommettere.
A differenza di Vittorio, Angelo era un istintivo. Studiava la corsa per qualche minuto. Poi scommetteva. Sceglieva un cavallo e via: vincente e piazzato. Durante la corsa Vittorio s’infervorava. Incitava. Gridava. Se vinceva, esultava. Se perdeva, inveiva. Angelo non muoveva un muscolo del viso. Non fiatava. Guardava la corsa immobile. Sembrava una statua. Se perdeva, stracciava la bolletta. In silenzio. Se vinceva, andava alla cassa. Sempre in silenzio. I commenti su una corsa bisognava spiccicarglieli a forza.
Dopo un paio di ore passate in sala corse si tornava al giornale. Angelo riprendeva il suo ruolo di caporedattore. Vittorio si ricongiungeva con Enzo che, nel primo pomeriggio, restava in redazione a leggere. Ferdinando se ne andava in giro per gli uffici della Regione a cercare notizie. In redazione tornava intorno alle sette e mezza di sera. Appena in tempo per illustrare ai capi servizio di economia e cronaca regionale le notizie che aveva trovato. E che, una volta ricevuto il placet, avrebbe scritto l’indomani mattina.
Il fine settimana si cambiava registro. Al giornale il sabato era il giorno più bello. A mezzogiorno il lavoro finiva. E arrivederci al lunedì. Come a scuola. Niente notizie da cercare e da verificare. Niente telefonate da fare. Niente riunioni pomeridiane. Niente capiservizio che volevano sapere cosa avresti scritto l’indomani mattina. Niente di niente. Libertà.
Sabato e domenica Ferdinando non restava quasi mai a Palermo. Era originario di Sciacca. Stava con una ragazza di lì. Lei si chiamava Eliana. Aveva diciassette anni. Nove in meno di Ferdinando, che ne aveva ventisei. Erano insieme da poco più di un anno. Lei frequentava il secondo liceo classico. Era più matura degli anni che aveva. Ferdinando anzi riconosceva che Eliana era più matura di lui. E la cosa non gli dispiaceva.
Eliana era siciliana dalla testa ai piedi. Aveva i capelli neri. Occhi grandi e neri. Carnagione olivastra. Altezza normale. La mamma di Ferdinando diceva che Eliana aveva un corpo perfetto. E in effetti doveva essere così, perché Ferdinando era incantato dal corpo di lei. Dal suo seno turgidissimo. Dalla flessuosità dei suoi fianchi. Dalle gambe che scendevano a terra come colonne ioniche.
Ferdinando era innamorato di Eliana. E lei era innamorata di lui. Di lei gli piaceva tutto. Il suo modo di fare. Il suo sorriso. Il suo modo di parlare. Il suo carattere indomito. La sua gelosia infernale. La sua dolcezza. Ed era ricambiato. Ferdinando era un malinconico. E a lei piaceva la sua malinconia. Era l’unica persona che riusciva a tirarlo su quando volava in depressione. Cosa che gli succedeva spesso.
Sembravano fatti l’uno per l’altro. Ne erano convinti entrambi. Forse perché quando si ama tutto sembra facile. O forse perché nella fase di amore-passione i problemi non esistono. Chissà. Fatto sta che erano in sintonia. Insieme funzionavano.
Quel sabato Ferdinando arrivò all’uscita del liceo di Sciacca con ‘Il Mattino’ di Napoli tra le mani.
– “Guarda, c’è il mio primo articolo per i napoletani”, disse porgendo il giornale a Eliana.
Lei era contenta. Se Ferdinando era felice, lei era felice.
– “Sai – aggiunse – pagano centomila lire a servizio. Ne faccio quattro al mese. Fanno quattrocentomila lire. Mi pare buono”.
– “Che tipi sono ‘sti napoletani?”, chiese lei.
– “Io parlo con Federico. A quanto pare è una specie di caporedattore”.
– “Ha l’accento napoletano?”, tornò a chiedere lei.
– “Eccome! Parla solo in napoletano. Già nelle due volte che l’ho sentito ho fatto il pieno di aggio, mo’ e ‘sta”.
Sì, Federico gli andava proprio a genio. Era esigente. E preciso come tutti i responsabili delle pagine che aveva conosciuto. Al telefono, quando gli commissionava un servizio, dava poche indicazioni. Ma voleva che si rispettassero. Alla lettera. I primi servizi li aveva suggeriti Federico. Alla fine del secondo mese – era un lunedì sera – al telefono il capo redattore del settimanale napoletano era stato categorico:
– “Mo’ adesso basta. Sei tu che stai lì in Sicilia. Domani mi chiami e mi dici cosa vuoi scrivere per questa settimana”.
In fondo, aveva pensato Ferdinando, era una promozione sul campo. Da allora in poi sarebbe toccato a lui scegliere gli argomenti da trattare. Che, tradotto, significava trovare le notizie. Al telefono Ferdinando gli aveva chiesto:
– “Solo e sempre banche?”.
– “No, puoi allargare se vuoi – aveva risposto Federico -. Però sempre sull’economia, mi raccomando. E stai sempre sulla notizia”.
Federico era telegrafico. Ferdinando avrebbe voluto restare un po’ di più al telefono con lui. Gli piaceva un casino sentire l’accento napoletano. Gli piaceva la sua voce. Avrebbe voluto conoscerlo. Magari andando al di là dell’argomento da trattare nel successivo articolo. Ma il capo redattore andava sempre di fretta. Una volta Ferdinando gliel’aveva pure detto:
– “Mi piacerebbe un sacco fare una chiacchierata con te. Sono sicuro che conosci Pasquale Turiello e Giustino Fortunato”.
– “Certo che li conosco – aveva risposto Federico -. Non faccio soltanto il giornalista. Lavoro anche all’Università di Portici. Mi occupo di economia. Da noi la questione meridionale è il nostro pane. Qualche volta ci facciamo una bella chiacchierata”.
Ma ‘sta chiacchierata non arrivava mai. Perché nei giornali, si sa, si va sempre di fretta.
Nel tardo pomeriggio di un lunedì di maggio Ferdinando e Federico diventarono amici. Fu per caso? O forse era inevitabile? Fatto sta che rimasero al telefono più di un quarto d’ora. Cosa che a Ferdinando, che aveva controllato apposta l’orologio dopo aver abbassato il ricevitore, gli era sembrata impossibile.
Tutto era nato dalla proposta di un pezzo avanzata da Ferdinando.
– "Sai, per questa settimana ti propongo una cosa sfiziosa – aveva detto -. Come sai, qui in Sicilia da un paio di anni piove pochissimo. Le campagne sono a secco. E le città pure. Così i tecnici di un ente regionale hanno deciso di sparare alle nuvole”.
– “Cosa?”, chiese Federico dall’altra parte del telefono.
– “Sì, con fucili speciali sparano alle nuvole scariche di ioduro di argento. Sembra che questo convinca le nuvole a condensarsi. Poi dovrebbe piovere. Così almeno dicono i tecnici israeliani che avrebbero inventato questa diavoleria”.
– “Lì in Sicilia siete tutti un po’ matti. Compreso tu. Ma il più matto di tutti sono io che ti sto commissionando questo servizio. Fai centoventi righe. Racconta tutta la storia. Mettici la sete della Sicilia. E tutto il resto, dalle dighe artificiali vuote ai rubinetti delle abitazioni a secco. Nel pezzo di appoggio di cinquanta righe senti uno di questi israeliani, vediamo che ci dice”.
– “E dove lo pesco l’israeliano?”, azzardò Ferdinando, pentendosi subito di quello che aveva detto.
– “Veditela tu. Ma il ricercatore israeliano matto ci deve essere. Sennò casca tutto”.
Quella fu la prima volta che Federico non salutò velocemente chiudendo il telefono. Chissà, forse aveva voglia di parlare con il corrispondente da Palermo. Magari per conoscerlo un po’ meglio. Questo pensò Ferdinando. Perché quella volta sembrava proprio che Federico non ne voleva proprio sapere di chiudere la conversazione.
– “Certo che lì in Sicilia ne succedono tante di cose strane. A me la tua terra piace per questo. Lo sai che in estate, ogni tanto, vado in vacanza lì da voi?”.
L’estate era ormai vicina.
– “Davvero? – rispose Ferdinando – Allora tra qualche mese avremo occasione di vederci”.
– “Certamente. Quest’estate con mia moglie abbiamo deciso di stabilirci per un po’ alle isole Eolie. Le conosci?”.
– “Benissimo. Le isole minori che stanno attorno alla Sicilia sono la mia passione”.
A questo punto Federico si era messo a ridere.
– “Perché le chiamate isole minori?”, gli aveva chiesto.
– “Che ti debbo dire? Qui le chiamiamo così. Le Eolie, Ustica, le Egadi, Pantelleria e Lampedusa e Linosa sono le isole minori. Forse perché la Sicilia è la grande isola e le altre sono più piccole”.
– “Ho capito. Vi sentite la grande madre di tutte le isole che vi circondano”.
– “Se proprio lo vuoi sapere – riprese Ferdinando – a me questa storia di chiamarle minori mi è sempre sembrata una grande stronzata. Dipendesse da me le indicherei con il loro nome e basta”.
La discussione era poi scivolata sul dialetto napoletano. Ferdinando gli confessò che a lui il napoletano piaceva da morire.
– “Non so perché amo tanto la tua lingua. Forse perché la collego al grande Totò. O ai De Filippo. O forse perché in questa lingua, da siciliano, riconosco una grandezza antica che ancora avverto”.
– “E che sarebbe ‘sta grandezza?”, aveva chiesto Federico.
– “La mia terra faceva parte del Regno delle due Sicilie. E la capitale di questo Regno era la tua città, Napoli”.
– “Ma noi qui da Napoli tenevamo un viceré per la Sicilia – rispose Federico sempre più divertito -. Eravate voi che vi amministravate. Anche allora, guai a chi vi toccava l’autonomia…”.
Pronunciò quest’ultima parola in un napoletano ancora più marcato. Inflessione che piacque un casino a Ferdinando.
– “Lo so, c’era il viceré. Ma Napoli c’era sempre. In certi momenti lontana, in altri momenti vicina. La tua città era pur sempre il riferimento principale di tutto il Regno. E per me, non ci crederai, lo è ancora”.
– “Oh, non è che tieni per i Borboni?”, chiese Federico che era sempre più allegro e divertito.
– “Macché Borboni e Borboni! Ormai siamo in Italia e ci dobbiamo restare. Piaccia o no, questo è il nostro Paese”.
– “E a te piace questo nostro Paese?”, gli chiese Federico.
– “Debbo rispondere da italiano o da uomo del Sud?”.
– “Perché le due cose non coincidono?”.
– “Non sempre”.
Così la discussione era scivolata sulla questione meridionale. Avevano parlato dei romanzi di Carlo Alianello e, in particolare, de “L’eredità della priora”, libro che entrambi avevano letto. Poi si erano salutati con calore.