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Trent’anni dopo gli Accordi di Oslo fra Israele e Palestina: è tutto da rifare?

Dopo Clinton, Biden potrebbe mettersi in gioco all’Assemblea Generale dell’Onu

Eric SalernobyEric Salerno
Trent’anni dopo gli Accordi di Oslo fra Israele e Palestina: è tutto da rifare?

Yitzhak Rabin, Bill Clinton e Yasser Arafat durante la firma degli Accordi di Oslo del 13 settembre 1993 -Credit: Wikipedia

Time: 3 mins read

Una speranza o una trappola? O le due cose insieme? Trenta anni fa furono firmati sul prato della Casa Bianca i famosi accordi di Oslo. Ero tra i giornalisti presenti a Washington per l’occasione. Arrivato di corsa da Gerusalemme dove per anni ho seguito, come inviato de Il Messaggero, il conflitto in Medio Oriente. Bill Clinton appariva soddisfatto. Gioioso. Arafat sembrava contento, sembrava dire: “Finalmente ho vinto la guerra di sopravvivenza del suo popolo”: i palestinesi avevano compiuto un grande passo verso la creazione di uno Stato indipendente accanto a Israele. Itzhak Rabin, il premier israeliano, che sarebbe stato poi ucciso a Tel Aviv da un ebreo fanatico religioso, appariva perplesso quando fu il momento di stendere la mano al vecchio nemico. Peres, da sempre volto buono di Israele, dava l’impressione di aver vinto una grande causa.

Due giorni dopo, di ritorno a Gerusalemme, nel patio dello storico American Colony Hotel, splendido ritrovo di giornalisti e spie, diplomatici e rappresentanti dei Paesi di mezzo mondo, un gruppo di colleghi italiani intorno a una tavolata si chiedeva, un po’ allegri un po’ tristi, dove trasferirsi per vedere altre sofferenze e raccontarle. Il conflitto sembrava finito. “Calma ragazzi. Ci sono ancora molte cose in sospeso. Temo che questa sia soltanto una pausa”, suggerii mentre fuori, per le strade della Città Santa, ragazzi palestinesi infilavano fiori nei mitragliatori delle truppe d’occupazione: erano incerti, perplessi. Avevano ragione.

“Negli accordi di Oslo firmati trent’anni fa – scrive il quotidiano di Tel Aviv, Haaretz – Israele accettò di ridurre gradualmente l’occupazione, mentre i palestinesi furono costretti a cessare istantaneamente ogni resistenza. Ogni parte ha interpretato l’accordo come meglio credeva. I rappresentanti palestinesi hanno capito o sperato che in cambio della rinuncia al 78 per cento della Palestina storica entro la fine del 1999 (senza rinunciare al legame personale-familiare, culturale, emotivo o storico del loro popolo), il controllo militare israeliano sui territori occupati nel 1967 sarebbe finito e i palestinesi vi avrebbero stabilito uno Stato”. I negoziatori israeliani hanno fatto in modo che l’accordo scritto descrivesse le fasi del processo senza menzionare obiettivi concreti (lo Stato, un territorio e confini)”.

Gli autori, o meglio, i rappresentanti di quella pace-non-pace sono tutti morti. Rabin e Peres non potranno mai dire se la loro decisione di andare avanti con un accordo più cinematografico che realistico fosse motivato del desiderio di tentare, in buona fede, una via d’uscita dal conflitto tra i due popoli che rivendicano la stessa terra o una specie di trappola per convincere i più deboli a rinunciare alla lotta armata e gradualmente accettare l’attuale situazione di apartheid.

“Grazie a Oslo – scrive sull’Haaretz Amira Hass, da sempre una sostenitrice dei diritti palestinesi – Israele si è liberata della responsabilità che spetta a un occupante per il benessere del popolo sotto occupazione. E ha mantenuto il controllo della terra, dell’acqua, delle lunghezze d’onda del cellulare, dello spazio marittimo e aereo, della libertà di movimento, dell’economia e dei confini, sia esterni che quelli che separano in settori diversi la Cisgiordania”.

E aggiunge: “Israele trae enormi profitti da queste leve di controllo, poiché supervisiona un grande laboratorio umano dove sviluppa e testa le sue esportazioni più redditizie: armi, munizioni e tecnologia di controllo e sorveglianza. I palestinesi in questo laboratorio – privati dell’autorità e le cui risorse si stanno riducendo – sono stati lasciati liberi di gestire i loro problemi e gli affari civili”.

Qualcuno, oggi, attribuisce il fallimento degli Accordi, in primo luogo all’uccisione di Rabin, un fatto traumatico per Israele ma anche un’assassinio che ha sorpreso pochi. Le carte segrete di alcune riunioni a Gerusalemme in cui prima della firma i protagonisti degli accordi discutevano tra di loro e con altri esponente del governo, dei servizi segreti e capi militare sull’opportunità o meno di andare avanti mostrano un quadro di confusione e incertezza. Soprattutto fa capire che la maggioranza degli israeliani, di destra come a sinistra, puntava da sempre a uno Stato per gli ebrei che andasse dal Mediterraneo al fiume Giordano, ossia tutto il territorio della Palestina sotto mandato britannico. Il progetto era ben delineato nel programma del Likud da dove scomparve, in maniera politicamente opportuna, solo anni dopo.

Oggi la popolazione di coloni israeliani in Cisgiordania ammonta a più di mezzo milione di persone. E aumentano gli insediamenti ebraici anche a Gerusalemme Est che doveva essere, nel progetto di pace, la capitale dello Stato palestinese. “Abbiamo raggiunto un traguardo enorme”, ha detto Baruch Gordon, un dei dirigenti dell’insediamento di Beit El. “Siamo qui per restare.”

Non tutti gli israeliani sono d’accordo ma solo pochi, in questi lunghi mesi di proteste pubbliche contro Netanyahu e il suo governo di estrema destra, da molti definito “fascista”, hanno voluto parlare pubblicamente della questione palestinese. E ora tutti aspettano l’Assemblea generale dell’Onu a New York per vedere se dopo mesi di boicottaggio il capo della Casa Bianca cederà e per i propri interessi politici o quelli del partito democratico, con le elezioni presidenziali alle porte, stenderà più di una mano al premier israeliano Netanyahu.

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Eric Salerno

Eric Salerno

Giornalista ed esperto di questioni africane e mediorientali, è stato corrispondente de 'Il Messaggero' da Gerusalemme per quasi trent'anni.

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