E’ da qualche parte che si nasconde la scintilla, magari minuscola, in grado di far divampare l’incendio. Piccola ma pervicace, provoca danni immensi. E’ difficile capirlo in tempo e, anche dopo, la ricerca delle cause è affannosa e incerta. Ci si chiede sempre come tutto sia stato possibile, il perché di quanto avvenuto quel giorno. Le cronache raccontano continuamente di fatti criminosi che spiccano per efferatezza, e per questo stupiscono e lasciano sgomenti. Sorprendono, e non sono di facile interpretazione.
La normalità apparente di tante vite improvvisamente esplode. Sembrava tutto a posto, le persone conducono una vita normale, fatta di affetti e lavoro; invece sopraggiunge qualcosa a far saltare il banco, a dar origine a qualcosa di impensabile. Oltre alla sorpresa, stupisce la crudezza dei gesti, il superamento di ogni limite, l’ampiezza delle conseguenze. Molte sono le rappresentazioni del male, ma alcune superano l’immaginabile, e ripropongono la domanda di sempre: qual è la sanzione più giusta in questi casi?
Allora, come reagire a gesti criminali fuori da ogni orizzonte plausibile? Tanto per stare alla cronaca ultima: la bambina di appena 18 mesi, vittima di violenze sessuali (?) e barbaramente uccisa (Como); il mistero dei genitori scomparsi, probabilmente gettati nell’Adige chissà come, mai ritrovati (Bolzano); la ragazza di 17 anni, bruciata, uccisa, scaraventata in un dirupo (Palermo).
La stessa domanda può essere proposta in termini generali riguardo alle colpe “storiche”. Il pensiero va alle più recenti tragedie dell’umanità, al più grande genocidio della storia, la shoah, o alle tante stragi che punteggiano la storia attuale: sono di portata inaudita, esorbitante la stessa dimensione dei singoli fatti. Anche in questo caso, il punto è lo stesso: come trattare le maggiori responsabilità umane, specie quando vediamo che continuano a produrre effetti nefasti presso le nuove generazioni?
Si può provare a sviscerare il dilemma, a scendere nel particolare, con il disincanto che accompagna le analisi più problematiche. Tra le soluzioni possibili, può esserci il tentativo (psicologico, storico?) di confinare il passato, piccolo o grande che sia, entro una sorta di parentesi, quasi fosse un accidente grave ma anomalo rispetto al tragitto positivo dell’umanità. Oppure, al contrario, si può esprimere la volontà di affrontare con decisione quelle realtà, contrastandole alla radice, per distruggere la mala pianta. Soluzioni discutibili entrambe, che almeno servono a non trascurare il problema, e a non rimuoverlo dalle coscienze.
I torti pesano e rallentano il domani, impossibile rinviare troppo a lungo lo scioglimento di certi nodi. La memoria decide di fare i conti con il passato, individuale o collettivo, in maniere diverse, secondo la sensibilità di ciascuno, e i progetti più opportuni. Non manca la fatica in ogni caso, e il risultato è sempre incerto.
Ci ha provato anche la letteratura, non meno che le leggi, ad affrontare temi così traumatici per la condizione umana, senza un approdo sicuro, rendendo lo scenario più vasto e inquietante. Quante sono alla fine la dimensione del male, la misura delle azioni malvagie e il tipo di conseguenze? L’eterno rapporto tra delitto e castigo, intrecciati al senso della morte, attraversa le più grandi pagine letterarie dell’800, da Tolstoj a Dostoevskij, al nostro Alessandro Manzoni ne La colonna infame.
Secondo Fedor Dostoevskij, la discesa agli inferi corrisponde al percorso tra la soffitta in cui abita Rodion Romanovich Raskolnikov e la casa in cui si trova Alena Ivanovna con sua sorella Lizaveta. Non è molto, appena 730 passi misurati più volte durante lo studio del gesto efferato. Ma la distanza è in realtà enorme. I due punti separano l’uomo dal crimine, indicano che la libertà di lui è contrapposta all’abisso della dannazione in cui cadrà quando avrà spaccato con un’accetta la testa dell’odiosa usuraia. Poli non paragonabili: il male futuro sarà eccedente il delitto, reso sconfinato da solitudine e sofferenza, in una parola dall’angoscia stessa della vita.
L’efferatezza suggerisce a prima vista risposte drastiche, non è concepibile alcuna ponderazione, figurarsi il perdono. Difficilmente in casi, in cui il delitto supera ogni confine, si riesce a vincere la tentazione di rispondere con durezza, anche la più estrema, che è sanzione adeguata, ammonimento a non ripetere il gesto. Il pensiero davanti al crimine più efferato è lo stesso, la pena capitale, soluzione resa necessaria dall’azione stessa.
Non sono concetti di altri tempi, ormai superati dalla sensibilità moderna e dall’odierna cultura giuridica. Lo ha mostrato Donald Trump, negli anni della devastante presidenza e persino nei giorni della transizione rispetto al mandato di Joe Biden. In America, dopo la moratoria durata dal 2003 al 2019, Trump ha ordinato la ripresa delle esecuzioni capitali. Così è stato eseguito il più alto numero di condanne a morte rispetto a quelle dei vari Stati: una delle ultime ha riguardato Lisa Montgomery, la prima donna in 70 anni.
Il motivo del primato va oltre questo dato statistico, conta la singolarità del caso. Liza ha compiuto un crimine debordante per atrocità e follia nei confronti di una madre e della bimba in grembo; la sua però è anche una storia in cui si mescolano violenze familiari inaudite, torture ed abusi. Non solo. La cosa più importante ai fini del giudizio sono le lesioni cerebrali irreversibili provocatele dai maltrattamenti del patrigno. Trump ha autorizzato a fare il suo corso questa giustizia, irriducibile e inflessibile, e cieca, perché non ha saputo vedere la realtà giudicata.
Sarebbe riduttiva la lettura di questi avvenimenti soltanto in relazione all’eccentricità di Trump, quel miscuglio di durezza, rabbia, risentimento, pervicacia ed ottusità; finirebbe per banalizzare l’argomento. Pure invocare il doppio volto della giustizia (feroce con deboli, tollerante con i tanti “amici” graziati) non renderebbe ragione di questa pagina nera.
Il nuovo ticket alla Casa Bianca certo ha adottato un programma progressista sulla giustizia, con il quale ha vinto le elezioni, e dovrebbe dunque provocare un cambio di passo. Sulla questione cruciale, Joe Biden promette un ordine esecutivo per fermare sin d’ora le esecuzioni capitali per reati federali, come quelli commessi dagli ultimi giustiziati nel mandato Trump, Dustin Higgs e Cory Johnson, malati di Covid, e appunto la Montgomery. Il partito democratico ha proposto l’abolizione della pena capitale per gli stessi reati.
Quanto a Kamala Harris, ha un trascorso importante: come procuratore distrettuale della California si impegnò a non chiedere mai la condanna a morte e non lo fece nemmeno per un caso “sensibile”, assurto alle cronache, di omicidio di un poliziotto nel 2003; e perseguì duramente il crimine in quel periodo contrastando, per quanto poté, la three strikes law, la regola dei tre colpi tratta dal baseball: al terzo reato, sei eliminato dalla società, scatta l’ergastolo.
E’ da vedere quanto sarà possibile portare avanti queste intenzioni, vincendo resistenze radicate nell’opinione pubblica. La pena di morte in America rimane largamente un tabù, perché non basta la moratoria delle esecuzioni capitali, e neppure sono sufficienti misure del solo governo federale: è la legislazione di molti Stati che ancora prevede la possibilità di condannare a morte e giustiziare i colpevoli.
Il punto tragico della storia dell’umanità è questo: la pena di morte è una sanzione di cui le società non riescono a fare a meno, indipendentemente da chi si trovi a rappresentarle e da come si governi.
Per quanto 142 paesi l’abbiano abolita, formalmente o di fatto, a partire dal 2019, la pena capitale continua ad essere praticata in modo massiccio. 657 sono le esecuzioni registrate nel 2019 secondo uno studio del parlamento europeo, ma il numero non comprende le esecuzioni avvenute in Cina e nel Vietnam, dove sono un segreto di Stato.
E’ scandaloso peraltro che tutto ciò accada anche nelle nazioni più evolute, come appunto gli Stati Uniti. Pure in Italia, peraltro, paese di Cesare Beccaria, dove è abolita per legge, il 43% della popolazione, nel 2020, si dice ancora favorevole alla pena capitale.
La maturità e il progresso non sono riusciti a scalfire l’antica legittimazione della pena di morte, eppure l’idea stessa della morte stride con il senso di giustizia, fa a pugni con la civiltà giuridica. Le innumerevoli riflessioni sul perché della sanzione non hanno raggiunto risultati definitivi, lasciando insoluti innumerevoli quesiti.
Una spiegazione possibile della radicalità delle esecuzioni capitali è nel fatto che il “sentimento della morte” attraversa molte epoche storiche, dalle arene dei gladiatori alla caccia alle streghe, al rogo per gli eretici. Si manifesta in forme svariate, le più crude e le più raffinate. E’ “piacere” di assistere alla morte altrui, partecipazione spettacolare ad un rito sociale, infine in periodi moderni diventa “potere legale” di disporre della vita altrui, di decidere del destino del prossimo. La paura della propria morte trova così una sublimazione nel pensiero che si tratti di un accadimento riguardante (solo) gli altri.
La pena capitale, nel solco di quel sentimento di morte, ha origine antiche: si collega alla costruzione del “potere politico” – in particolare quello statale – come strumento necessario per garantire gli equilibri sociali e ripristinare gli assetti sconvolti dal crimine. La comunità accetta la soggezione al potere per salvaguardare la tranquillità e ottenere sicurezza.
Ma la logica di governo delle formazioni sociali è stravolta proprio dalla previsione della pena di morte come possibile mezzo di soluzione del conflitto sociale nei casi più gravi. Rimedio estremo certo, almeno quanto lo è il delitto al quale si rapporta, per questo ammissibile.
Se nella dimensione filosofica e religiosa prevale l’idea del pentimento, dell’ammissione della colpa per la riconciliazione sociale, l’esecuzione capitale rimanda ad un orizzonte totalmente diverso: l’idea di espellere la colpa dal tessuto sociale e di portare a termine l’obiettivo con l’eliminazione fisica dell’autore. Si suppone una coincidenza assoluta tra il male e la persona che l’ha incarnato.
Sulla formazione delle leggi, nella storia dei tribunali e infine nella concezione finalistica della pena si sono prodotti di conseguenza effetti devastanti, mai composti. Che hanno generato nell’opinione pubblica illusioni e credulità, attivando il convincimento che il binomio delitto-castigo rispecchiasse quello della ripartizione delle cose del mondo tra buono e cattivo, senza sfumature, zone grigie. Premessa per la separazione chirurgica, con mano sicura, dell’uno dall’altro, e per la distruzione finale dell’oscurità.
Eppure, in tema di pena di morte, ben altri sono gli approdi della cultura umanistica, in tutte le sue componenti, da quella religiosa-filosofica a quella laica.
La “parabola della zizzania” (Mt 13,24-30) contiene l’invito a non separare il seme cattivo, sparso nel campo di grano dal nemico, da quello buono, sino al raccolto finale. Non c’è confusione tra ciò che è positivo e ciò che rimane sempre negativo, né incertezza sul giudizio. Ma conta il richiamo alla prudenza e alla cautela nel procedere, sino al momento in cui tutto sarà chiaro e definito, solo allora si tireranno le somme, e il buio potrà essere annullato.
Immanuel Kant offriva un’interpretazione laica dell’invito evangelico ad attendere il “raccolto finale” come momento chiarificatore e decisivo, paragonando l’umanità ad «un legno storto». Non intendeva criticare e svalutare la condizione umana, piuttosto valorizzarne la singolarità irriducibile, la particolarità significante, rispetto ad ogni sommaria semplificazione
I sistemi penali devono essere improntati a razionalità, e ciò richiede che siano costruiti a misura della vita umana. Non possono diventare strumenti di vendetta né coltivare ambizioni salvifiche e taumaturgiche dell’umanità. Sono limitati ed imperfetti, realistici, ma proprio perciò più adeguati a cogliere le differenze in ciascun caso. La giustizia realmente umana non ha a che fare con i roghi e i patiboli, ma più empiricamente con l’accertamento della verità, unico mezzo per comporre le fratture e le lacerazioni provocate dal crimine.
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