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November 10, 2014
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November 10, 2014
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Le gravi parole del presidente Napolitano

Francesco ErspamerbyFrancesco Erspamer
Time: 5 mins read

A quanto pare Giorgio Napolitano si dimetterà fra un paio di mesi. È una buona notizia. A succedergli potrebbe essere un personaggio altrettanto mediocre e politicamente peggiore ma difficilmente qualcuno in grado di danneggiare la credibilità delle istituzioni e del sistema democratico quanto ha fatto lui. Perché il nuovo presidente, chiunque sia, rappresenterà in modo evidente i gruppi di potere che lo avranno sostenuto, come era sempre accaduto nella storia della Repubblica, da Einaudi a Ciampi: l’irredimibile colpa di Napolitano è di avere tradito le aspettative generate dalla sua provenienza dall’opposizione storica, primo presidente con un passato nel Partito comunista. Uno storico inglese, Perry Anderson, lo ha per questo definito un “Vicar of Bray” (rappresentato nell'immagine qui sopra), ossia un opportunista, uno che cambia bandiera, ideologia e retorica a seconda della convenienza. Nessuno, a sinistra, si faceva illusioni, mettiamo, su Giovanni Leone, eletto con i voti dei fascisti. Ma quando fu eletto Sandro Pertini con i voti del PCI qualcosa di diverso ce la si aspettava: e Pertini ripagò la fiducia. Provate a leggere i suoi discorsi.

Napolitano

Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

I discorsi di Napolitano testimoniano invece lo svuotamento liberista del linguaggio politico: il suo stile non è quello di Silvio Berlusconi ma gli effetti sono analoghi. In un momento in cui da un uomo della sua generazione e con il suo passato ci si sarebbe aspettata una difesa dei valori che i padri costituenti avevano eretto a difesa della nostra fragile democrazia per prevenire tentazioni autoritarie e derive plutocratiche, ha invece contribuito alla loro banalizzazione, rivelandosi il politico ideale per sdoganare l’antipolitica del neocapitalismo.

Ecco cosa ha detto, per esempio, nel suo ultimo intervento, letto il 4 novembre in un’occasione importante, la festa dell’unità nazionale (cito dal testo ufficiale pubblicato sul sito del Quirinale): “Vi è il rischio che, sotto la spinta esterna dell'estremismo e quella interna dell'antagonismo, e sull'onda di contrapposizioni ideologiche pure così datate e insostenibili, prendano corpo nelle nostre società rotture e violenze di intensità forse mai vista prima”. Questa frase in particolare l’hanno ripresa molti giornali e telegiornali, sempre riportandola per intero e alla lettera: perché se avessero provato a parafrasarla o riassumerla avrebbero finito col dover ammettere che non significa nulla. Così invece sembra suggerire qualcosa: un indistinto senso di allarme, di urgenza, non basato su analisi o prove ma capace di agire al livello psicologico più superficiale, quello dei pregiudizi, delle reazioni istintive, lo stesso a cui fa appello buona parte della pubblicità e della propaganda. Si tratta fra l’altro di una frase brutta, priva di stile, mal costruita, con un lessico impreciso: come fa qualcosa a essere contemporaneamente “sull’onda” (ossia in un momento favorevole) e “datata”? E in che modo una contrapposizione può essere definita “insostenibile”?

La retorica delle classi dominanti non è sempre stata così trasandata. Un bel libro di Gabriele Pedullà, Parole al potere (BUR), ha analizzato storicamente l’evoluzione del discorso politico italiano da Cavour a Berlusconi, con un’ampia antologia di testi. La sua conclusione è che quella lunga tradizione, la quale a sua volta si fondava sui classici dell’oratoria greca e latina, si sia improvvisamente interrotta negli ultimi decenni e che fra il nostro presente e il passato, anche quello prossimo, si sia creato un fossato profondo. Colpa dei nuovi media e delle nuove tecnologie, suggerisce Pedullà. Ma il suo libro è del 2010: prima dell’avvento di Renzi, prima cioè che la trasformazione della politica in gossip venisse portata a compimento e rivelasse, con una trasparenza resa possibile dall’arroganza di chi si crede il vincitore assoluto, le sue più profonde motivazioni. I media e la tecnologia sono solo mezzi e potrebbero essere usati in maniera diversa. È il neocapitalismo liberista a essersene appropriato e ad averne fatto lo strumento con cui imporre la sua egemonia culturale. Non sono insomma la televisione o internet a richiedere banalità, superficialità, omogeneizzazione: sono i ricchi e le loro corporation, ai quali serve un mondo in cui la naturale tendenza umana alla solidarietà e all’eguaglianza sia sostituita da un individualismo estremo compensato, a soddisfare quel bisogno di socialità, da un consumismo compulsivo di massa. Renzi è, in Italia, il messia di questa svolta liberista, molto più di quanto lo sia stato Berlusconi. E Napolitano è stato il suo Giovanni Battista.

Torniamo al suo discorso del 4 novembre: “Vi è il rischio…”. Come negare, in generale, che ci sia un rischio? C’è il rischio di uscire per strada e venire colpiti da un fulmine, c’è il rischio che uno psicopatico si convinca che per salvare il mondo occorra tagliare la gola a tutte le donne che portano una borsa verde, c’è il rischio che il riscaldamento globale provochi catastrofici maremoti. Sono rischi di uguale livello? Diffidate sempre di chi parla di pericoli senza specificare se siano infinitesimali o probabili, immediati o proiettati in un lontano futuro, concreti o accademici. Il suo fine è invariabilmente creare paura, ossia la condizione necessaria e sufficiente per allentare la vigilanza della gente e approfittarne per defraudarla dei suoi diritti. 

Un’altra caratteristica della propaganda è usare concetti decontestualizzati, come se significassero sempre la stessa cosa, a prescindere dalle circostanze. L’“estremismo” di cui parla Napolitano, per esempio, del quale in una frase successiva lamenta la “perversa forza attrattiva”: di che si tratterebbe? Dell’Isis, molto di moda a livello mediatico? Ma in quel caso perché non nominarlo direttamente? Già il concetto di terrorismo si presta ad abusi: ma perché mai avere convinzioni estreme sarebbe inevitabilmente causa di apocalittiche rotture e non piuttosto di proficui confronti? Democrazia significa accettare i conflitti, anche radicali, nella convinzione che non solo sia possibile risolverli attraverso il dialogo ma che siano indispensabili per il progresso sociale e l’innovazione. Invece Napolitano non teme solo il pericolo dell’estremismo esterno: anche quello dell’“antagonismo” interno. È una posizione molto grave. L’antagonismo è la linfa vitale della democrazia e solo i più biechi totalitarismi lo impediscono. Cosa auspica, Napolitano, la fine dei contrasti? il trionfo dell’ortodossia, dell’impero, dell’omologazione? il monopolio di un’unica “forza attrattiva”, quella del denaro, del consumismo, della pubblicità? Stessa cosa per le “contrapposizioni ideologiche” che condanna subito dopo: come possono essere un male, un problema? Purtroppo questa aspirazione al conformismo, questa ideologia del consenso, non è semplicemente senile: è un elemento fondamentale del neocapitalismo e un indice della profonda avversione del liberismo per i meccanismi che generano pluralismo e dissenso, visti come ostacoli alla governabilità e al successo immediato. 

 

[Altri miei articoli nei blog Controanalisi e Il pensiero inelegante.]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Francesco Erspamer

Francesco Erspamer

Nato a Bari, cresciuto a Parma e in Trentino, laureato a Roma, professore a Harvard. Mi interesso di letteratura, politica, storia delle idee e cambiamenti culturali. Insegno corsi su estetica, romanzo moderno e contemporaneo, Rinascimento, calcio. Di recente ho scritto: La creazione del passato, Sulla modernità culturale e paura di cambiare, Crisi e critica del concetto di cultura. Come Gramsci, penso che al pessimismo della ragione occorra accompagnare l’ottimismo della volontà, e come James Baldwin, che la libertà non la si possa ricevere in dono: bisogna prendersela.

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