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September 15, 2014
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La paura dell’ignoto, ovvero l’ansia di non sapere che fare

Riccardo GiumellibyRiccardo Giumelli
L'urlo di Munch

L'urlo di Munch

Time: 5 mins read

 

“Chi vuol esser lieto sia, del doman non v’è certezza” scriveva Lorenzo il Magnifico in pieno Rinascimento fiorentino. Zygmunt Bauman, qualche secolo dopo, in epoca globale, parlerà, invece, di modernità liquida, o, nello specifico di paura liquida. L’incertezza del futuro, l’impossibilità di far durare le cose a lungo, il godimento dell’immediato, l’immanentismo sono facce della stessa medaglia. Ma tutto è mosso da quella che Lovecraft descriveva: “La più antica e potente emozione umana è la paura, e la paura più antica e potente è la paura dell’ignoto”. 

Ne parliamo perché questa estate ha riportato a galla molte paure rimaste per qualche tempo ai margini. Teste tagliate di giornalisti da incappucciati, aerei di linea abbattuti, malattie contagiose, nuovi gruppi terroristici, ecc…

La paura è sentimento condiviso universalmente ma affrontato in maniera diversa secondo la cultura di riferimento: la si può sfidare, asservire, affrontare inconsciamente o con la massima strategia, viverla come un’ossessione o conviverci più o meno serenamente, ci si può preparare per tempo oppure combatterla nel momento in cui sorge, oppure combatterla con la scaramanzia o rimedi antimalocchio. Nella cultura italiana, quella del “non si sa mai”, la paura è stata, dai pochi, sfidata per l’ambizione di diventare eroi, da molti motivo per mettere “da parte” oppure per salire sul carro dei più forti, quello delle relazioni importanti, che possono essere d’aiuto nei momenti difficili. 

All’idea di paura si affiancano quelle di sicurezza e libertà. Il sentimento di sicurezza è inteso come libertà da tutte quelle paure che attanagliano quotidianamente l’individuo: attentati terroristici, ma anche atti violenti, furti, incidenti stradali, truffe e raggiri, crisi finanziarie, nuove malattie incurabili, virus, immigrati clandestini, perdite improvvise di lavoro, errori giudiziari. Il 6 gennaio 1941 il presidente F. D. Roosevelt, in un discorso pronunciato al Congresso degli Stati Uniti, descrisse la “libertà dalla paura” come una delle quattro libertà fondamentali (insieme alla libertà di parola, libertà di religione, libertà dal bisogno). Quindi, la sicurezza allude alla libertà, ma come sostiene Bauman, in numerosi scritti, esse spesso sono in contrasto. Sono come due facce della stessa medaglia, a volte prevale l’una e a volte l’altra. Privilegiando la libertà si debbono necessariamente allargare le maglie del controllo, eliminare tutti quei vincoli che bloccano le dinamiche di sviluppo e di costruzione identitaria. Naturalmente quando si privilegia la sicurezza, la libertà viene ridotta – come è accaduto negli Stati Uniti – attraverso tutta una serie di interventi atti a delimitare le libertà individuali. Naturalmente gli individui sono disposti a rinunciare più all’una o più all’altra a seconda della situazione della realtà che in quel momento viene percepita.  

Ancora negli anni’70, in Italia, la paura veniva definita come depressione clinica. Così, in effetti, veniva diagnostica, ad esempio, la paura che provavano i giurati popolari nei primi processi alle brigate rosse a partire dal 1977 e che li persuadeva a rinunciare al compito affidatogli.

La modernità ha consegnato alla storia società altamente conflittuali dove “paure rosse” e “paure nere” si sono mescolate, confuse. La modernità ha generato Stati Nazionali, contraddistinti da conflitti interni determinati dai processi produttivi e da conflitti esterni fra gli stessi Stati Nazionali (I guerra mondiale), fino a quando i due conflitti – quell’interno e quello esterno – si sono fusi dando vita a “guerre calde” tra regimi totalitari (nazi-fascismi) e democrazie e a “guerre fredde” tra liberismo e comunismo, fino alle conseguenze che tutti sappiamo. 

La razionalità è stata quindi la prima grande arma messa in atto dall’uomo per difendersi dalla paura. Ciononostante qualcosa sta cambiando e questo sentimento di certezza sta nuovamente entrando in crisi. Prendiamo questo continum: vulnerabilità-pericolo-paura-ansia-angoscia-panico-terrore (Sidoti 1999), nel quale si situa, in modo inversamente proporzionale, il processo di calcolo razionale dei rischi incontrollati. Mano a mano che si passa da vulnerabilità-pericolo-paura e così via, il calcolo dei rischi controllabili diminuisce e quindi aumenta la percezione della gravità del pericolo. Il problema è che oggi, nella cosiddetta post-modernità, l’idea di paura si sta confondendo sempre di più con quello di ansia e angoscia. Cioè la paura viene vissuta come uno stato ansiogeno o angoscioso quasi quotidiano. A questo punto potremmo chiederci ansia per che cosa, angoscia per quali ragioni. Ebbene, le cause non sono chiare, sono opache, indefinite e indefinibili e tutto questo non fa’ altro che alimentare tali stati ansiogeni. Pensiamo all’aumento esponenziale dagli anni’80 del consumo di psicofarmaci, oppure di forme terapeutiche di origine psicologiche di ogni tipo alla ricerca di cause scatenanti del disagio esistenziale. Tuttavia queste cause risultano sempre di più poco indicative, in quanto si inseriscono in un quadro di concause nel quale non è possibile trovare i nessi precisi né tanto meno spiegazioni razionali e risolutive. Così si parla in maniera generica di disagio e si somministrano farmaci per lenire sofferenze pronte a ripresentarsi successivamente. Non intendo con questo aprire un dibattito sulle terapie psichiatriche e psicoanalitiche per porre rimedio a tali situazioni quanto piuttosto muoversi su un altro piano: quello di un nuovo individuo, che in epoca di globalizzazione, di “passaggio d’epoca” (Melucci 1994) si sta trasformando.  

Le paure quindi non solo provengono dall’esterno, sotto la forma di nemici dalle varie forme, ma anche dall’interno. La paura di sé, delle scelte che quotidianamente si devono prendere con le conseguenze reali sulla propria identità e sugli altri. La paura quindi di sbagliare e di non essere all’altezza delle mutevoli situazioni che costantemente mettono alla prova. Tutto ciò immobilizza, blocca le energie, oppure crea un “l’effetto blasé” (Simmel la identifica come quella reazione psicologica che induce gli individui bombardati dagli stimoli ad una sostanziale indifferenza emotiva). All’opposto può accadere di ricercare, con maggiore determinazione, un Noi più forte e pertanto in grado di difendersi da un Loro visto come destabilizzante, che spinge nella ricerca di capri espiatori.

Addirittura si scrive che i recenti cambiamenti sociali avrebbero prodotto livelli di stress talmente alti da influire sui mutamenti della corteccia cerebrale (Le Doux 1988). Ci stiamo accorgendo della limitatezza della ragione, ormai scesa dall’altare e del cui tempio sembrano rimanere solo macerie.

La mancanza di un nemico identificabile non fa’ che aumentare percezione dello stato di insicurezza e della paura conseguente, anche ad un popolo come quello italiano che nel corso dei secoli ha imparato a mettere in pratiche le più diverse strategie.

Oggi, però, la situazione è diversa in quanto globale e come ci dice Bauman: “La paura più temibile è la paura diffusa, sparsa, indistinta, libera, disancorata, fluttuante, priva di un indirizzo o di una causa chiari; la paure che ci perseguita senza una ragione, la minaccia che dovremmo temere e che si intravede ovunque, ma non si mostra mai chiaramente. “Paura” è il nome che diamo alla nostra incertezza: alla nostra ignoranza della minaccia, o di ciò che c’è da fare – che possiamo o non possiamo fare – per arrestarne il cammino o, se questo non è in nostro potere, almeno per affrontarla”. 

                                        

 

 

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Riccardo Giumelli

Riccardo Giumelli

Un aforisma che più di altri mi rappresenta è quanto scrisse Machiavelli, citando Boccaccio: “che gli è meglio fare e pentirsi, che non fare e pentirsi”. Come loro sono toscano, animo inquieto in cerca di porti per approdare e ripartire. Dopo gli studi in Scienze politiche, ho iniziato ad amare i libri, fare ricerca e scrivere, al punto da rimanere nell’Università, prima Firenze poi Trento. A Dijon e poi a Parigi, ho lavorato alla Camera di Commercio italiana e all’OCSE. Tornato in Italia, sono approdato a Verona, dove faccio ricerca e insegno. Intanto un matrimonio e due splendide gemelline. Mi occupo di sociologia, cultura e comunicazione. Tra tanti nuovi inizi e altrettanti epiloghi, una costante: ho sempre tifato Inter. Infatti soffro di stomaco.

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