Titolo in prima pagina sulla “Repubblica” di ieri, 22 agosto: “Io, che ho sconfitto Ebola”. Tralascio il fatto che una vittoria su Ebola è ancora lontana: decine di persone continuano a morire ogni settimana. Volevo piuttosto dare risalto a quell’enorme pronome in prima persona che apre la frase: “Io”. Di questo ormai parlano i media occidentali: di “io”. Celebrity stabili, di media durata, o occasionali, famose per un giorno, ma importanti sempre e solo nella loro individualità – poco importa che si tratti del calciatore Balotelli o dell’orsa Daniza, purché si tratti di un caso specifico. È un indice dell’egemonia culturale del liberismo economico, che si fonda appunto sull’esaltazione delle qualità dei singoli e sulla difesa dei loro diritti in quanto individui: la sconfitta del socialismo reale è stata in questo senso solo un episodio di un lungo processo di sistematica distruzione delle comunità. Sindacati, partiti, beni comuni, aggregazioni locali, anche Chiese, sono stati sacrificati al mito capitalista del successo personale a qualsiasi costo, misurato in termini di denaro e trasformato in una virtù assoluta, un segno della Grazia divina: chi fa soldi meritava di farne, chi non ne ha non meritava nulla e deve accettare la sua condizione di inferiorità.
Significativamente, l’inserto culturale di “Repubblica” di un paio di settimane fa (“La domenica” del 10 agosto) è stato dedicato agli anni novanta, con la scusa di una mostra appena aperta a Metz, in Francia. La mostra ha un nome abbastanza neutro e denotativo: Une histoire (critique) des années 90; che però nel titolo di “Repubblica” diventa una celebrazione incondizionata del decennio: “Quei favolosi anni 90”. Il significato politico e ideologico dell’operazione del giornale (non della mostra) si rivela nelle pagine successive. Perché gli anni 90 furono così importanti e così favolosi? Perché, cito, “dal noi passammo all’io”; è stata “l’epoca che inventò il sestessismo”. Una deriva narcisista accettata come necessaria; anzi, esaltata come una liberazione. Di cosa? Degli istinti più egoistici di una ristretta ma aggressiva parte della popolazione, quella degli ambiziosi, degli avidi, degli stronzi, tenuti in scacco dalle grandi lotte sociali del Novecento e sdoganati dal trionfo del libero mercato.
È su questo terreno che va combattuta la decisiva battaglia per la rinascita di una sinistra, a sua volta determinante nella guerra fra chi sta costruendo una società di diseguali (in cui i vincenti saranno in grado di sopravvivere, forse, alla catastrofe ambientale e culturale provocata dalla loro stupidità e immensa avidità) e chi ancora crede che la condizione umana si esprima primariamente attraverso la solidarietà (la stragrande maggioranza della gente lo crede, ma è senza voce, senza coraggio e senza capacità di organizzazione, grazie alla sistematica opera di disinformazione dei media, tutti o quasi controllati dai ricchi e dalle loro mega-corporation). Smettiamola di farci distrarre dai dettagli o di farci ingannare dalla retorica liberista. In gioco, lo ripeto, è l’idea e la pratica della comunità. Si tratta di decidere – adesso, non fra qualche anno o decennio – se è più importante la collettività, e ciascuno di noi esiste in relazione agli altri e solo attraverso quelle relazioni (e le norme morali che le regolano), oppure se sono più importanti gli individui, ciascuno in competizione con gli altri, senza alcuna legge che non sia quella del successo. Siamo ancora in tempo per ricostruire un partito e un’ideologia del “noi”, radicalmente ostile ai partiti e alle ideologie dell’io, oggi dominanti. Ma non si può più aspettare.