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June 11, 2014
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Gli italici dietro a un pallone. I Mondiali e il senso di identità

Riccardo GiumellibyRiccardo Giumelli
Time: 4 mins read

E così finalmente ci siamo. Sono passati altri quattro anni ed ecco il Mondiale brasiliano. Per le strade di città si vedono bar attrezzarsi di grandi televisioni per radunare il maggior numero di persone. Molti rimarranno aperti anche per la prima sfida dell’Italia contro l’Inghilterra che, a causa del fuso orario, sarà trasmessa alla mezzanotte. Giornali sportivi e non sono strapieni di informazioni sugli Azzurri. Nell’aria il solito scetticismo iniziale accompagnato dal desiderio e dalla consapevolezza che, comunque, la nazionale di calcio italiana può sempre sorprendere. Difficile da battere, e se supera la fase iniziale dei gironi può essere preda di un crescendo di sentimenti, entusiasmo, energia come poche altre.

Sarà un mondiale con 23 azzurri e 53 "italiani", o meglio italici, come qualche giornale riporta. Tra i ventitré a disposizione Paletta e Thiago Motta, argentino di origine il primo, brasiliano il secondo, da qualche anno con doppio passaporto ma che hanno scelto di giocare per l’Italia. Poi Balotelli, nato Mario Barwuah, da genitori ghanesi e dato in affido ad una famiglia bresciana. Ma dei nostri italici in nazionale abbiamo già parlato in questa rubrica. Incuriosisce, invece, l’altro numero, quel 53 fatto da oriundi per lo più argentini, uruguaiani, cileni, svizzeri, statunitensi, australiani. Si conta in questo caso la doppia nazionalità, certamente un importante indicatore. Noi, invece, che guardiamo all’italicità come situazione ibrida, del mescolamento della cultura italiana nel mondo, forse potremmo trovarne qualcuno in più. In ogni caso da questa statistica emerge che siamo il secondo paese con il più alto numero di altri “italiani” che giocano per altre nazionali. Il primo è la Francia. Ma se la Francia ha determinato la sua influenza mondiale attraverso un processo colonizzatore, l’Italia ha fatto diversamente. Se c’è una cosa che contraddistingue gli italiani è che hanno conquistato il mondo con il lavoro e non con le armi e gli eserciti. E di questo dovremmo essere orgogliosi. Oriundi italici come Messi, il più noto, è pronipote di emigranti partiti da Recanati verso Rosario alla fine del XIX secolo, in cerca di fortuna, di nuove terre, di nuove opportunità. 

Sono certo che gli Azzurri avranno tanti tifosi, o per lo meno simpatizzanti, tra i molti italici sparsi nel mondo. Chi di loro tiferà per la nazionale del paese di residenza, perché lì da generazioni, in caso di sconfitta comincerà a supportare la nazionale italiana, se, come speriamo, sarà in grado di fare un lungo cammino.

L’Italia del mondiale è un Italia diversa. Non è certo un’Italia unita, sarebbe troppo banale sostenerlo. E’, tuttavia, un’Italia che sembra danzare insieme, per qualche momento, al suono della stessa musica. Ci vollero i gol di Riva, Boninsegna, Burgnich e Rivera, nella mitica semifinale di Messico ’70 contro la Germania, per far tornare in piazza le bandiere tricolore. Ci volle l’urlo di Tardelli a Madrid nel 1982 per far saltare di gioia un paese intero, come se quell’urlo liberatorio fosse di tutti, fosse il momento del riscatto dopo anni bui e difficili. Ci volle l’ultimo rigore di Grosso a Berlino nel 2006 per far scoppiare la festa, tutti insieme, giovani e vecchi, poveri e ricchi, fortunati e sfortunati, seppur per una notte. E’ così l’Italia, un paese che si specchia e si ritrova nel grande evento, meglio se in contrapposizione a qualcuno che italiano non è, anche se solo in una partita di calcio. 

Quando, ormai lo scorso anno, cominciai questa rubrica la introdussi con queste parole trovate casualmente in un forum: “Non si sa mai dove si possono trovare gli italiani con sicurezza. Dipende da chi li cerca, quando e perché: io devo ammettere che li trovo sempre altrove. Forse si ha la necessità di un altrove per diventare italiani”. Quell’altrove, seppur virtuale, può essere una partita di calcio nella quale riconosciamo da che parte stare, o meglio riconosciamo ciò che non siamo.

Se la nazionale dovesse andare avanti, giorno per giorno, malgrado il fastidio di tanti per un evento mediaticamente troppo opprimente, indosseremo tutti un’ immaginaria maglia azzurra. Festeggeremo o rimarremo delusi. Ci batteremo il cinque, ci abbracceremo o staremo in silenzio. Esulteremo o ci metteremo le mani nei capelli. Sarà un momento, prima di tornare ai rancori, alle autodenigrazioni, alle reciproche rivalse, ai conflitti, nel quale, forse, ci vorremo un pochino più bene. Tutti sperano, ovviamente, che questo momento possa durare più a lungo. Ma a questo punto un pensiero un po’ malevolo mi sorge: quando un popolo è molto distratto da un evento di tale portata fino a che punto la politica può approfittarne? 

Noi speriamo che anche lei sia distratta da qualche bella parata o gol spettacolare, ma ne dubitiamo.

Buon mondiale a tutti.

 

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Riccardo Giumelli

Riccardo Giumelli

Un aforisma che più di altri mi rappresenta è quanto scrisse Machiavelli, citando Boccaccio: “che gli è meglio fare e pentirsi, che non fare e pentirsi”. Come loro sono toscano, animo inquieto in cerca di porti per approdare e ripartire. Dopo gli studi in Scienze politiche, ho iniziato ad amare i libri, fare ricerca e scrivere, al punto da rimanere nell’Università, prima Firenze poi Trento. A Dijon e poi a Parigi, ho lavorato alla Camera di Commercio italiana e all’OCSE. Tornato in Italia, sono approdato a Verona, dove faccio ricerca e insegno. Intanto un matrimonio e due splendide gemelline. Mi occupo di sociologia, cultura e comunicazione. Tra tanti nuovi inizi e altrettanti epiloghi, una costante: ho sempre tifato Inter. Infatti soffro di stomaco.

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