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Fratelli d’Italia o Bella Ciao? L’Inno di Mameli e gli altri “fratelli” d’Europa

Gli inni non nacquero tali ma vennero adottati dalle autorità che vi individuavano i valori che avrebbero dovuto essere condivisi dai loro popoli

Cesare MolinaribyCesare Molinari
Fratelli d’Italia o Bella Ciao? L’Inno di Mameli e gli altri “fratelli” d’Europa

Goffredo Mameli

Time: 11 mins read

Con questo titolo – Fratelli d’Italia – non intendo riferirmi al partito neo-fascista di Giorgia Meloni, bensì a quel canto destinato, dopo lunghe e travagliate vicissitudini, a diventare ufficialmente, ma non ancora costituzionalmente, il nostro inno nazionale – anche se, di tutta evidenza, proprio ad esso intesero riferirsi i fondatori di quel partito (Ignazio La Russa, Guido Crosetto e la stessa Meloni) uscendo dalla costola della vecchia Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini. Probabilmente sapendo abbastanza poco (come tutti, del resto) non solo di quelle vicissitudini, ma anche della vita, del pensiero e della poesia di Goffredo Mameli.

Mameli lo scrisse a Genova, per incitare la resistenza della città contro le truppe piemontesi, nel 1847, e quindi due anni prima di affrontare, combattendo eroicamente contro i francesi che assediavano Roma per restaurare il potere papalino, una morte terribilmente dolorosa, a ventidue anni. E lo intitolò semplicemente “Inno”. Sicché definirlo, come comunemente avviene, quale “Inno di Mameli” appare perfettamente corretto.

Bisogna però precisare che l’Inno, nel contesto della produzione letteraria e poetica di Goffredo Mameli, appare decisamente come un unicum – e non certamente il più felice. La produzione poetica di Mameli, quantitativamente oltre che qualitativamente molto consistente, soprattutto se rapportata alla giovanissima età del poeta, può essere suddivisa in quattro tipologie: poesia d’amore, pregna di romantica e a tratti quasi leopardiana nostalgia, ma non di esaltata passione; poesia di storia, dedicata soprattutto a personaggi perseguitati e dolorosi, come Dante esiliato e il Tasso imprigionato; poesia filosofica, in cui la sua incredibile cultura hegeliana si dispiega in termini al tempo stesso tanto faticosamente complessi e articolati da apparire talvolta astrusi quanto illuminati da raggi di immaginazione (l’esempio maggiore essendo forse Un’Idea, quasi un poemetto di 156 versi; e, finalmente, la poesia politica, esaltante, ma non esaltata, dove il concetto centrale non è la patria, bensì la libertà, la libertà dei popoli, di tutti i popoli.

Da quanto detto, mi pare possa apparire abbastanza chiaro come e perché l’Inno di Mameli possa essere definito un “unicum negativo” – se pure è lecito arrogarsi il diritto di esprimere giudizi così tranchants: il giudizio di qualità (bello-brutto) è certamente il grado zero della critica. D’altra parte, un simile giudizio si fonderebbe su un grosso malinteso: siamo abituati a parlare dell’Inno di Mameli riferendoci al testo adottato come inno nazionale che consiste soltanto nelle prime due delle sei strofe di cui l’inno è composto, oltre al ritornello. Ora, mentre nelle quattro strofe escluse vengono ripresi i temi cari alla poesia politica di Mameli – la libertà e la fratellanza dei popoli – le superstiti prime due strofe si risolvono in una retorica chiamata alle armi, condite da un richiamo alla gloria dell’antica Roma nella figura di Scipione l’Africano, del cui elmo l’Italia, ormai desta, dovrebbe cingersi la testa. Per non parlare del ritornello, dove la chiamata alle armi si concentra in due versi piuttosto criptici: “stringiamoci a corte / siam pronti alla morte”. Io temo, ma sono davvero poco generoso, che molti abbiano inteso che, per essere pronti alla morte, bisogna scendere insieme in cortile, pochi essendo a conoscenza del fatto che il suono della parola “corte” è frutto di una crasi, cioè di quel fenomeno fonetico che comporta la fusione di due vocali, “corte” valendo in questo caso per “coorte” (come del resto scritto nelle edizioni più corrette), la “coorte” essendo la formazione di base dell’esercito romano in battaglia, pare ideata proprio da Scipione l’Africano.

Ma, a questo punto, potrebbe valere la pena di accennare a qualche confronto con altri inni nazionali, magari muovendo dai motivi musicali (argomento sul quale le mie competenze sono estremamente limitate), per ricordare come l’inno universalmente ritenuto più ‘bello’ sia quello tedesco, e non solo per il nome del compositore, Franz Joseph Haydn: Deutschland über alles, quasi a dispetto dell’enfasi del suo primo verso, si sviluppa poi in un ritmo disteso, quasi rallentato. E, se è vero che quel primo verso ne diventa poi il ritornello, spesso fortemente accentuato, e che non manca di un accenno, peraltro non musicalmente sottolineato, alle “nobili gesta” (edler Tat), è vero anche che l’esaltazione, o, piuttosto, l’amore per la Germania, si articola prevalentemente su temi che nulla hanno a che fare con la potenza e la gloria: la fede, ma soprattutto le donne, il vino e il canto: Deutsche Frauen, deutsche Treue / Deutscher Wein und deutscher Sang.

L’inno nazionale più universalmente noto, e spesso anche cantato, è però quello della Francia: la celeberrima Marseillaise, che deve la sua notorietà al fatto di essere riferita all’evento fondante della storia moderna: la Rivoluzione francese. Almeno in parte, perché, d’altro canto, essa contiene motivi ambigui e contraddittori. Si tratta, comunque, di un canto guerresco: come è ben noto fu cantato dalle brigate dei patrioti marsigliesi che andavano a combattere contro gli eserciti della coalizione che premevano ai confini orientali della Francia, descritti come barbari feroci e sanguinari, ma anche, e soprattutto, “orde di schiavi, di traditori e di re”. Allora i figli della patria (enfants de la Patrie) evocati nel primo verso, dove il termine enfants significa in prima accezione “bambini”, si trasformano in “cittadini”, citoyens, chiamati alle armi contro lo stendardo insanguinato della tirannia e guidati bensì dal sacro amore della patria, ma al cui fianco è chiamata a combattere la stessa “cara – cherie” libertà, ma anche affinché un “sangue impuro impregni i solchi della nostra terra”. Quindi, anche se nella versione che viene di norma effettivamente eseguita rimangono solo tre delle otto strofe che compongono l’inno, essendo abolito l’elenco dei misfatti che le orde di schiavi avrebbero commesso, rimane che lo scopo finale sia di spargere quel sangue. Talché, se i valori supremi sono patria e libertà, essi si traducono in libertà della patria, non in libertà dei popoli, come avrebbe voluto Goffredo Mameli. Musicalmente l’andamento melodico è certamente trascinante, ma non sopraffatto dalla scansione ritmica.

Non credo valga la pena di indugiare sull’inno inglese, God save the Queen, tanto banale nel testo che affida alla sovrana la salvezza della patria, quanto solennemente disteso dal punto di vista musicale, se non per ricordare che si tratta del più antico fra gli inni nazionali (anche se non si sa in quale specifica occasione sia stato composto) e che fu a lungo l’inno di tutti i paesi del Commonwealth. Ancora più banale, ma in compenso anche orribile musicalmente fu soltanto il nostro “Viva il re”. Molto più interessante sarebbe riflettere sull’inno statunitense, dedicato alla bandiera a stelle e strisce che illumina e fortifica la coscienza unitaria degli “uomini liberi e forti”, forse anche nell’intento di spronare gli stati ancora riottosi a confluire dell’Unione. Anche questo inno conobbe diverse traversie e fu adottato come inno nazionale soltanto nel 1931, dopo essere stato l’inno della marina militare. Ma il discorso si farebbe troppo lungo.

Per concludere, varrà solo la pena di notare come praticamente nessuno degli inni citati nacque come tale: tutti vennero, per così dire, adottati dalle autorità politiche, che vi individuavano i motivi e i valori che erano, o avrebbero dovuto essere, condivisi dai loro popoli. Ma che diventano spesso anacronistici, soprattutto quando la loro origine è legata a un preciso momento o evento storico. L’ultimo e forse più nobile esempio di una simile scelta è stato quello dell’Unione Europea: l’Inno alla gioia, un breve testo di Schiller, musicato da Beethoven e da lui collocato a conclusione della Nona sinfonia.

Rebus sic stantibus, non ci si potrebbe chiedere se non è il caso di sostituire un inno così poco riuscito e così attualmente insignificante come Fratelli d’Italia con un altro, già pronto e più bello? In verità una proposta in tal senso è già stata fatta, da Umberto Bossi, il quale ha suggerito di adottare come inno nazionale il coro del Nabucco. Certamente, dal punto di vista estetico, non ci sarebbe confronto, ma è stato obbiettato che sarebbe ben strano come inno nazionale quello in cui si piange la patria perduta. Personalmente, se dovessi proporre un nuovo inno nazionale, non avrei dubbi: Bella ciao, anche perché credo che molti, fuori d’Italia, siano convinti che Bella ciao sia davvero il nostro inno nazionale – altrimenti i pompieri di Londra e di Parigi non l’avrebbero cantata per farci un cenno di solidarietà.

Conosco l’obiezione: Bella ciao è un canto ‘divisivo’, Ma quale non lo è? Forse solo Fratelli d’Italia, per l’ottima ragione che, nelle due strofe cui l’Inno di Mameli è stato ridotto, non dice assolutamente niente, mentre Bella ciao non può essere accettata da coloro che rinnegano la Repubblica democratica nata dalla Resistenza (e mi è capitato di sentire alla TV un tizio sostenere, giustamente dal suo punto di vista, che lo stesso 25 aprile è una festa ‘divisiva’ così come, per i monarchici, lo è il 2 giugno). Ora, Bella ciao, con il suo impianto narrativo, come di ballata, è un canto dolcissimo, quasi una storia d’amore che si conclude con una morte gloriosa (“per la libertà”), ma alla sepoltura del partigiano non servono lapidi di esaltazione: soltanto un fiore, ma un “bel fiore”. Un canto dunque non certo solo trascinante, paradossalmente grazie proprio al suo ritmo rallentato, ma anche e piuttosto un canto di riflessione, da cui emergono valori semplici e profondi: l’amor di patria certo, ma anche la tenerezza, la solidarietà e, perché no?, la bellezza.

Comunque sia di ciò, un’altra questione, stavolta di ordine squisitamente teorico o metodologico, va pregiudizialmente affrontata per meglio capire quale possa essere l’impatto di una canzone su chi fisicamente la ascolta: il problema della “esecuzione”, termine che viene usato quasi esclusivamente in rapporto alla musica: non si dice, ad esempio, che un lettore ha “eseguito” una poesia, così come non si direbbe mai che un attore ha “eseguito” la parte di Amleto – in questo caso si usa sempre il verbo “interpretare”. Quale può essere la differenza fra le due espressioni – eseguire/interpretare, esecuzione/interpretazione – se pure ce n’è una? “Eseguire” comporta l’idea di necessità: “da x deriva necessariamente y”. Si esegue un ordine cui non ci si può sottrarre, ma i risultati di quella esecuzione possono non corrispondere al reale contenuto dell’ordine stesso, ossia all’intenzione di chi lo ha impartito, o perché l’esecutore non è in grado di ottemperarvi, o perché non lo ha capito bene, ovvero perché lo ha interpretato male.

Ma, per restare alla musica, cosa si intende dicendo che Riccardo Muti ha eseguito la nona sinfonia? Un altro direttore d’orchestra, Carlo Levi Minzi, ha sostenuto che “il dovere di un esecutore è quello di rendere la composizione musicale così come l’autore l’aveva concepita”. Già, ma tale ‘concezione’ dell’autore è affidata a una notazione grafica, la partitura, costituita da simboli grafici, le note, e da rare ‘indicazioni di tempo’, del tipo “fortissimo, andante con moto, ecc.”, non certo sufficienti a definire esattamente l’intensità con cui una nota o un gruppo di note devono essere suonati, come anche il tempo preciso in cui devono succedersi. Ragion per cui il direttore dovrà necessariamente “interpretare”, cioè scegliere fra le, certo limitate, ma pur sempre numerose possibilità di esecuzione.

I concetti di “interprete” e “interpretazione” si fanno certamente più chiari se riferiti all’attore – e gli attori hanno spesso rivendicato il titolo di “interprete”. Etimologicamente il termine “interprete” si riferisce al cambiavalute (inter-pretium), cioè a colui che trasferisce un certo valore monetario in un altro : per un dollaro ti do mille lire, con uno scambio che comprende anche il guadagno del mediatore stesso, che, per l’attore, potrebbe essere il tasso della sua personalità, ossia, come minimo, il suo aspetto fisico. Perciò si dice anche che l’attore ‘impersona’ il suo personaggio. Uno degli sport preferiti dai critici teatrali, almeno fino a tutta la metà del Novecento, era di accusare gli attori di avere non solo tagliato o modificato certi passaggi del testo, ma anche, e soprattutto, di aver tradito lo ‘spirito’ della parte – che era poi quello che loro, i critici, pensavano di avervi còlto. Che è, invece, l’essenza stessa dell’interpretazione, la quale, già nel suo grado zero, la traduzione, non può limitarsi a trasferire un vocabolo in un altro, ma deve anche riorganizzare la sintassi e sciogliere i modismi, cercando di rispettare anche l’andamento ritmico della prosa o, a maggior ragione, del verso. Fin dove possibile. Ed è forse per questo che Benedetto Croce ebbe a dire che le traduzioni sono come le donne: brutte e fedeli o belle e infedeli.

Un esempio veramente straordinario del significato e dei limiti di questo concetto di esecuzioneinterpretazione è stato offerto dalla cantante, ma anche attrice, Tosca (al secolo Tiziana Donati), la quale, in occasione del 25 aprile, ha cantato, a suo modo, proprio Fratelli d’Italia, in omaggio alla Croce Rossa – ed è stato precisamente l’ascolto di questo canto a spingermi a riflettere e a scrivere questo alquanto pretenzioso saggetto.

Ma per capire meglio l’exploit di Tosca sarà necessario tornare per un momento sull’Inno di Mameli e, in particolare, sulla musica di Michele Novaro. Che sembra ispirata al quarto movimento della Quarta sinfonia di Beethoven, di cui però forza l’accentuazione ritmica e quindi anche il tono relativamente marziale. Ed è proprio sull’andamento ritmico che punterà l’interpretazione di Tosca.

La quale non è la prima interpretazione-rivisitazione dell’Inno. Era stata preceduta, addirittura nel 2002, da quella, per la verità non particolarmente stravolgente, di Elisa e poi, nel 2016, dalla versione Gospel di Cheryl Porter, eseguita dagli Hallelujah Gospel Singers che ne fecero una canzone straordinariamente allegra, vivace e gioiosa. Entrambe queste versioni sono state censurate per volontà di Maurizio Gasparri, ex-ministro e attualmente senatore.

Come Elisa e i Gospel, anche Tosca mantiene integralmente sia il testo verbale (anzi è l’unica a pronunciare esattamente “coorte”) sia il succedersi delle note, sicché, a rigor di termini, si potrebbe dire che l’Inno è rimasto esattamente lo stesso. Mentre invece un cambiamento c’è, ed è profondo : il tempo dell’esecuzione viene estremamente rallentato: l’andante con moto si trasforma in un lentissimo, ciò che finisce quasi per cancellare la scansione ritmica, trasformando il canto in un continuum, quasi il fluire appena percepibile di un ruscello in pianura. Così il canto di Tosca diventa un sussurro, qualcosa che si mormora all’orecchio, ed è per te, soltanto per te. E’ come se il canto fosse sempre lì lì per svanire, per annullarsi nella purezza, indicibile, del sentimento. Se a ciò si aggiunge l’estrema dolcezza della voce di Tosca, si dovrà concludere che Fratelli d’Italia è diventato un canto d’amore, ma di un amore che non ha nulla dell’erotismo, ma è piuttosto materno o, forse meglio ancora, sororale, un amore che è vicinanza, conforto o, forse, addirittura pietà pietas. C’è da ricordare che Tosca, al concerto del primo maggio di un paio d’anni fa, aveva cantato anche Bella ciao, senza spingere a quegli estremi il rallentamento del ritmo, ma con la stessa dolcezza della tonalità vocale, forse pensando che, per dirlo come canto d’amore, Bella ciao non aveva bisogno di essere tanto radicalmente “interpretata”: bastava “eseguirla”.

Si può dire che l’interpretazione-esecuzione dei Gospel costituisce il rovescio di quella di Tosca? Sì e no: no perché anche i Gospel cercano nell’Inno di Mameli qualcosa che vada nella direzione dell’amore; sì perché questo amore è, in sé, qualcosa di gioioso (An die Freude ha titolato Schiller), ma che va vissuto insieme, senza sentimentalismi, ma come pura esplosione di vitalità – e che perciò ha bisogno di corpi che si agitano danzando, di un coro, di una collettività. Mentre, come abbiamo visto, Tosca sussurra all’orecchio: l’amore vi è un rapporto privato e duale. Quasi segreto.

Dal punto di vista di Gasparri, il canto di Tosca dovrebbe essere molto più ‘pericoloso’ di quello dei Gospel. Perché esso tende ad annullare il concetto stesso di collettività e quindi di popolo e, ovviamente, ancor più di ‘nazione’: quei “fratelli” sono in realtà il mio unico e solo fratello. Un fratello sofferente che a me tocca non di esaltare o di sollecitare, ma solo di consolare. Come in una carezza, perché si ha la sensazione che questo canto sia, in sé, una carezza dolcissima. Invece, in questo caso, il nostro senatore non ha avuto l’animo di censurarlo. Forse perché c’entrava la Croce Rossa.

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Cesare Molinari

Cesare Molinari

Professore emerito di storia del teatro, Università di Firenze. Autore di numerosi saggi (Eleonora Duse, Antigone, Brecht, Commedia dell'Arte). Ha insegnato anche alle Università di Parigi, Toronto, Santiago del Cile.

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