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La nuova normalità post Covid-19: nulla sarà come prima. Quale sarà allora?

O meglio: come vogliamo che sia? La normalità dopo il coronavirus non potrà essere il ritorno al passato, se incapace di risolvere i problemi sorti nell'emergenza

Angelo PerronebyAngelo Perrone
La nuova normalità post Covid-19: nulla sarà come prima. Quale sarà allora?

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Time: 7 mins read

L’occasione per risanare il tessuto sociale

Il tessuto sociale, dopo il Covid-19, avrà bisogno di essere risanato in profondità e non basterà il fronteggiamento del virus, comunque lungo. La piccola buona notizia è che l’emergenza e la fase 2 potrebbero servirci a fare scelte oculate. Ne saremo capaci? Sconfiggere il virus rimane prioritario, perché solo il vaccino ci farà dire che siamo davvero fuori, ma non possiamo sprecare l’opportunità di oggi. Quando finirà la pandemia, saranno intervenuti cambiamenti troppo radicali per tornare indietro.

Il distanziamento sociale: le difficoltà di applicazione

La regola che governerà la nostra vita, per un tempo imprevedibile, sarà il distanziamento sociale. L’unica su cui si possa contare, perché non disponiamo d’altro. Un enunciato facile da applicare, se non ci fossero mille problemi, come è già evidente. La misura può essere blanda, complessa, estrema: è sempre complicata. Facile dire: manteniamo le distanze quando parliamo, lavoriamo, prendiamo i mezzi pubblici; quando ci muoviamo all’aperto. Anche nel privato, e in casa.

Basta poco per comprendere quanto sia “costoso” tutto questo. Difficile da realizzare senza investimenti e trasformazioni. Alternare i posti nei treni o sugli aerei significa aumentare i mezzi e il numero dei viaggi; far entrare le persone senza assembramenti comporta lo stravolgimento degli orari di entrata/uscita e di durata del lavoro, quindi modifiche degli spazi e assunzione di altro personale.

Lo stesso criterio della distanza può richiedere interventi fisici, non solo organizzativi-normativi. La creazione di barriere tra le persone, in contrasto con la tendenza naturale all’avvicinamento fisico. E’ una sorta di risposta “sovranista” al virus, in contrasto con la logica della democrazia. Separiamo fisicamente gli spazi, dividiamoci, alziamo muri, stavolta reali non metaforici. Gli ombrelloni dentro capsule di plexigas. Paratie tra tavolini dei bar, tra cliente e impiegato.

L’utilità del digitale e la perdita della dimensione collettiva

L’altra risposta al virus, oltre la distanza, è il potenziamento del digitale. Sostitutiva o integrativa  della distanza. Il digitale è uno scenario altrettanto generalizzato. Ipotizzabile in qualsiasi campo, ma irrealizzabile nelle attività che esigono il contatto diretto. O sconsigliabile per le conseguenze politiche. In Cina ha dato origine al controllo minuto degli individui, sino all’annullamento dei diritti più elementari. Efficace ma brutale.

E’ stato inevitabile il digitale, data l’impossibilità di muoversi, di recarsi in fabbrica, nelle scuole, in ufficio. Come altro fare se era vietato il contatto diretto con gli altri? Ma come proseguire su questa strada? Ecco, lo smart working che d’un colpo inverte la retorica del coworking, della condivisione di tutto, dai mezzi di trasporto alle abitazioni. Oppure le lezioni scolastiche da remoto, che ugualmente tengono in contatto studenti e insegnanti. Certo non una soluzione a portata di mano, anzi fonte di accentuazione delle diseguaglianze sociali.

Basterebbero la connessione e un computer, ma le famiglie disagiate non l’hanno. Rimangono fuori. Come affronteranno il futuro? Ancora, i processi a distanza (giudici, pubblico ministero, difensori in luoghi diversi), espediente per fronteggiare l’emergenza, potranno avere una possibilità domani? E cosa ne sarà di certe sperimentazioni audaci, anzi spesso additate al pubblico ludibrio, come le funzioni religiose in streaming, e le sedute di psicoterapia in chat?

Le novità in materia di distanze e di digitale vanno oltre l’emergenza, sono un’anticipazione del futuro. Introducono cambiamenti così forti da prefigurare nuovi modelli di relazioni umane. Varrà la pena mantenerle? Tutte queste innovazioni non sono necessariamente peggiori, neanche sicuramente migliori. Questo è il punto. Nella gestione del presente, sarà importante esplorarle, valutarne portata e incidenza, senza pregiudizi, ma con senso critico.

Probabilmente non ci sarà una risposta unica che valga sempre, e si dovrà scegliere caso per caso, magari vedendole alla prova in tempi meno confusi. Saper mettere da parte le cose inutili, valorizzare l’essenziale, questo il compito che ci attende. Che differenza c’è tra il lavoro svolto a distanza e quello a contatto di gomito? Tra la frequentazione scolastica e le lezioni via chat? Tra il processo da remoto e quello con la presenza fisica ravvicinata di tutti? Tra la seduta terapeutica via web e quella “normale”? Sarà importante affrontare queste questioni anche in situazioni “normali”.

Il ricorso al digitale scardina il pilastro sul quale sono costruite tante attività umane, si direbbe il setting, la “cornice” entro cui si svolgono e che alla fine le caratterizzano: ambienti, orari, appuntamenti, modalità di comportamento, regole di interazione personale. Non c’è più l’ufficio con le scrivanie e gli impiegati a scambiarsi informazioni. Ed impressioni. Si fa a meno dell’aula scolastica, dove gli studenti interagiscono con gli insegnanti. L’udienza processuale assume una dimensione virtuale, accentua l’aspetto funzionale rispetto a quello fisico.

Nel mondo digitale, manca la dimensione collettiva del lavoro, si attenua per la distanza il senso di appartenenza, difettano le declinazioni del contatto diretto. Non ci sono spostamenti (auto, bici, metro), incombenze materiali (orari, cartellini di ingresso). Neppure abitudini e rituali (saluti, caffè in comune, magari chiacchiere) di contorno.

L’importanza del contesto sociale

La domanda cruciale anche per il futuro sarà: quanto la mancanza di questo contesto incide realmente sul risultato del lavoro? E quali aspetti collaterali sono ugualmente determinanti? Pensiamo alla soddisfazione nello svolgimento di un compito, al riconoscimento sociale, in una parola alla “motivazione” del singolo contributo.

La parola “cornice”, a ben vedere, ha i suoi limiti. Ce ne rendiamo conto per esempio nello svago, nelle attività culturali. Non è la stessa cosa fare ginnastica in casa o frequentare una palestra dove incontrare amici ed appassionati. Ascoltare musica nella stanza o farsi un tour virtuale in un museo non equivale a recarsi ad un concerto, ad entrare in un museo e girare per le sale galvanizzati all’idea di trovarsi di fronte a quel quadro del ‘500. Non sarà facile rinunciare alla “cornice” e diventerà impraticabile una risposta che valga in tutti i casi.

Di certo, vanno rimosse le sedimentazioni. Non ce le possiamo permettere in una società che non potrà tornare alla normalità senza soluzioni nuove. Ci sono tendenze conservatrici specie nelle attività di lunga tradizione. Resistenze che non permettono di vedere altro che non sia ciò a cui siamo più abituati. Ecco il valore frenante della consuetudine, del già visto e conosciuto. Un ostacolo a riconoscere ciò che può servire ad una maggiore funzionalità nel lavoro e nell’esistenza. Del passato, manteniamo solo l’irrinunciabile.

La diversità delle soluzioni: il “caso per caso”

Le forme delle attività sociali vanno valutate per la loro efficacia non meno che per la capacità di preservare aspetti identitari importanti per il singolo. Non è forse vero che sino ad ieri nel coworking, simbolo dell’abbattimento di ogni barriera fisica e psicologica, si è cercato di attenuare l’aspetto spersonalizzante con arredi e soluzioni di segno contrario?

Così, solo per fare degli esempi, non potremmo immaginare la Scuola di Barbiana, creata da don Lorenzo Milani, senza l’incontro personale di alunni e maestro, assunto a modello di vita oltre che di insegnamento. Del resto la scuola è sempre formazione e non solo apprendimento, dunque esperienza che necessita della presenza fisica e del contatto diretto.

Tuttavia, è altrettanto vero che, nello stesso lavoro scolastico, ci sono momenti di studio assolutamente individuali (un tema, un testo scritto, la spiegazione di un argomento) che non richiedono questo rapporto stretto, anzi persino lo sconsigliano, perché necessitano di isolamento e concentrazione.

Una valutazione priva di pregiudizi dovrebbe servire anche a superare le rigidità che si sono manifestate nella giustizia per lo svolgimento dei processi da remoto. Sono state formulate critiche prive di aderenza alla realtà, e del resto non nuove (accompagnarono anche l’introduzione di analoga riforma per evitare i costi legati al trasferimento dei collaboratori di giustizia sottoposti a protezione).

Ebbene, basterebbe riflettere che il principio di immediatezza (di cui si è lamentata la violazione) ha un significato temporale, che è garantito dal digitale. Allude alla relazione tra un soggetto (gli operatori di giustizia) e un oggetto (le prove che si formano) e richiede che le attività si svolgano nello stesso tempo (non necessariamente nel medesimo luogo fisico) con la possibilità di interagire, immediatamente e in modo completo. Cosa che appunto accade, con l’audio e il video: ogni circostanza della comunicazione, verbale o meno, è rilevabile integralmente e subito esaminabile e contestabile.

L’approccio realistico, senza pregiudizi

Sono soltanto esempi, in campi tanto importanti come la scuola e la giustizia, che riflettono il medesimo problema, la necessità di un approccio senza sovrastrutture ideologiche. Troppo spesso sono soltanto le consuetudini ad impedire di sperimentare strade più efficaci, valutando in modo concreto gli effettivi risultati.

L’emergenza ci ha costretti a ripensare le forme tradizionali di lavoro, e persino gli stili di vita. Il ritorno alla normalità non potrà non tenerne conto, anzi ci impone d’essere aperti ad ogni soluzione, se fattibile e meritevole. Occorre però saper lasciare da parte il vecchio che ha ormai perso valore e riuscire a dare spazio al nuovo più efficace.

E’ stato fin troppo abusato lo slogan: nulla sarà come prima. Dobbiamo interrogarci: quale sarà allora? O meglio: come vogliamo che sia? La nuova normalità non sarà possibile senza scelte sapienti. Dovremo essere capaci di abbandonare la zavorra che frena il cammino, e portare nel futuro solo il meglio del passato.

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Angelo Perrone

Angelo Perrone

Angelo Perrone è giurista e scrittore. È stato pubblico ministero e giudice. Si interessa di diritto penale, politiche per la giustizia, tematiche di democrazia liberale: diritti, libertà, diseguaglianze, forme di rappresentanza e partecipazione.Svolge studi e ricerche. Cura percorsi di formazione professionale. È autore di pubblicazioni, monografie, articoli. Scrive di attualità, temi sociali, argomenti culturali. Ha fondato e dirige “Pagine letterarie”, rivista on line di cultura, arte, fotografia. a.perrone@tin.it

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