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Libia: dopo tante battaglie, l’addio di Salamé. Resta un dossier bollente che nessuno vuole

Pochi giorni prima di dimettersi per il troppo "stress", l'inviato ONU aveva accusato la comunità internazionale di non averlo supportato abbastanza. E ora?

Giulia PozzibyGiulia Pozzi
Libia: dopo tante battaglie, l’addio di Salamé. Resta un dossier bollente che nessuno vuole

Ghassan Salamé, Former Special Representative of the United Nations Secretary-General and former Head of the United Nations Support MIssion in Libya briefs the press at the meeting of the 5+5 Libyan Joint Commission, Palais des Nations. 18 February 2010. UN Photo by Violaine Martin

Time: 4 mins read

“Ho cercato per più di due anni di riunificare i libici, di arginare l’interferenza straniera e di preservare l’unità del Paese. Oggi, si è tenuto il Summit di Berlino, è stata adottata la risoluzione 2510 e i “Tre Binari” [la “triplice” roadmap, finanziaria, militare e politica, individuata per risolvere la crisi – ndr] sono stati lanciati, nonostante la riluttanza di qualcuno. Ma ammetto che la mia salute non mi permette più di sostenere questo livello di stress”. Non si può dire che le parole di Ghassan Salamé, da oltre due anni inviato speciale del Segretario Generale ONU in Libia, siano giunte come “un fulmine a ciel sereno”. Perché di cieli sereni, dal 2011 a questa parte, la Libia non ne ha mai più visti. Di certo, però, arrivati a questo punto, pochi si sarebbero aspettati le dimissioni dell’instancabile capo della missione UNSMIL. Perlomeno dopo che, il 12 febbraio scorso, il Consiglio di Sicurezza ONU aveva per la prima volta mandato un segnale pressoché unitario sulla crisi, chiedendo il rispetto del cessate il fuoco.

Eppure, la proverbiale “goccia che ha fatto traboccare il vaso” potrebbe essere arrivata a pochi giorni da quella risoluzione, con l’ennesimo fallimento dei negoziati convocati a Ginevra, che ambivano a far trovare un accordo alle parti belligeranti. Lo ammette tra le righe l’articolo pubblicato sul sito di notizie delle Nazioni Unite, che ricorda tra le altre cose come quei negoziati siano stati, di fatto, costantemente accompagnati da macroscopiche violazioni del cessate il fuoco. L’ultimo tentativo Salamé deve averlo compiuto proprio negli ultimi giorni di febbraio, mentre in Svizzera erano in corso i colloqui politici tra le parti: secondo quanto riportato dal quotidiano “Libya Herald”, per diversi abitanti di Tripoli il 28 è stata la giornata peggiore da diverso tempo a quella parte, a causa della pioggia di proiettili che ha interessato diverse aree della capitale, in primis quella dell’aeroporto militare di Mitiga. Ma le bombe non sono state l’unico tentativo di sabotaggio del dialogo: secondo quanto raccontato da Salamé in conferenza stampa, il 26, giorno fissato per l’inizio dei colloqui, diversi rappresentanti che avrebbero dovuto partecipare hanno lasciato improvvisamente i tavoli.

Difficile dire se, in quella sede, Salamé abbia lasciato spazio a qualche avvisaglia dell’imminente passo in dietro. Da un lato, infatti, prefigurava nuovi tentativi e nuove iniziative per l’immediato futuro, dando per scontata la prosecuzione del proprio impegno:  “Continuerò a convocare colloqui nel mese di marzo”, assicurava alla stampa. Dall’altro lato, però, alle domande dei giornalisti, varcava con più decisione del solito i “limiti” del linguaggio diplomatico, nel puntare il dito contro la comunità internazionale:

C’è un certo numero di Paesi, compresi i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, più un numero di Paesi che sono intervenuti – e continuano a farlo – negli affari libici, che si sono incontrati il 19 gennaio scorso a Berlino, e si sono impegnati, pubblicamente, a sostenere i tre binari del processo di pace. Si sono incontrati di nuovo, o almeno alcuni di loro, a New York, in Consiglio di Sicurezza, e hanno insieme approvato la Risoluzione 2510, nella quale i Paesi si impegnano a sostenere quei tre binari.

 

Risponderò alla sua domanda in modo non diplomatico. Ho avuto il tipo di supporto necessario da allora? La mia risposta è no. Ho bisogno di molto più supporto. […] [Quei Paesi] Hanno diversi modi per mettere pressione su coloro che violano il cessate il fuoco, su chi non rispetta l’embargo sulle armi, su coloro che non si presentano ai colloqui politici di Ginevra, e su chi dà ordine di sabotarli. Potrebbero farlo. Lo hanno fatto nelle modalità in cui si sono impegnati a farlo? La mia risposta è no.

Quanto, poi, alla missione navale europea che sostituirà l’Operazione Sophia:

È una decisione dell’Unione Europea, non delle Nazioni Unite. E devo dire che questa decisione dell’UE non è tesa a mettere fine alla guerra, ma piuttosto a monitorare il contrabbando e l’esportazione delle armi. E ancora, è un’iniziativa dell’Europa.

Parole particolarmente forti, senza dubbio, ma non è la prima volta che l’ormai dimissionario inviato speciale denuncia l’ipocrisia e l’inazione della comunità internazionale sul dossier libico. Senza andare troppo lontano, il 6 gennaio scorso, aveva invitato i Paesi, senza troppi giri di parole, a tenere “giù le mani dalla Libia”. Il 19 febbraio scorso, poi, aveva messo in chiaro per l’ennesima volta che, finché l’embargo sulle armi non sarà rispettato, la pace è destinata a rimanere un miraggio. E il 21 maggio scorso, a circa un mese dall’inizio dell’offensiva del generale Haftar, aveva previsto: “Non sono Cassandra, ma la violenza nelle periferie di Tripoli è soltanto l’inizio di una lunga e sanguinosa guerra nelle sponde sud del Mediterraneo, che minaccia la sicurezza dei principali vicini della Libia e della più ampia regione mediterranea”. “Una lunga guerra civile in Libia non è una prospettiva inevitabile”, aveva proseguito. “Ma potrebbe avere luogo per il volere di alcune parti, e l’inazione di altre”.

Del resto, che il dossier libico fosse tra i più bollenti e difficili da gestire era chiaro da ben prima che il diplomatico libanese assumesse l’incarico. All’epoca, fonti diplomatiche rivelarono al quotidiano “Libyan Herald” che Salamé, già ministro della Cultura del suo Paese dal 2000 al 2003, era stato il 29esimo candidato in lizza a cui il ruolo era stato proposto. “Nessuno lo vuole fare, lo vedono come un compito impossibile”, aveva raccontato la fonte. Da quel momento, il percorso dell’inviato di Guterres è stato disseminato di ostacoli. Nel 2017, presentò il suo “Action Plan” per la Libia in quattro fasi, con l’obiettivo di mettere attorno a un tavolo tutti i principali attori politici delle due parti, e di convocare una Conferenza Nazionale, che avrebbe dovuto essere “una sintesi delle speranze del popolo libico”. Ma le iniziative europee compiute in ordine sparso, in primis il summit di Parigi di quell’anno convocato da Macron, dimostrarono fino a che punto i singoli attori stranieri avevano influenza nel conflitto, ed erano primariamente preoccupati a proteggere i propri interessi. Negli anni successivi, avremmo assistito a tante altre dimostrazioni di tale circostanza. L’approccio su “tre binari” (politico, economico, militare) è stato lanciato nel 2019 con il definitivo arenarsi dell'”Action Plan”: ma il suo insuccesso è stato implicitamente dichiarato dal fallimento del suo pre-requisito più essenziale, cioè la tenuta del cessate il fuoco.

Ora, al centro delle preoccupazioni del Segretario Generale ONU, António Guterres, c’è quella di assicurare “una fluida transizione”, in modo da non vanificare i “progressi che sono stati fatti”. Ma i timori sono tanti, e giustificati. E secondo Fathi Bashagha, ministro dell’Interno del Governo libico riconosciuto dall’ONU, le dimissioni di Salamé renderanno le cose più complicate soprattutto per un motivo: sarà difficile trovare un altro inviato disposto ad accettare di dirigere l’intricatissimo dossier.

 

 

 

 

 

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Giulia Pozzi

Giulia Pozzi

Classe 1989, lombarda, dopo la laurea magistrale in Filologia Moderna all'Università Cattolica di Milano si è specializzata alla Scuola di Giornalismo Lelio Basso di Roma e ha conseguito un master in Comunicazione e Media nelle Relazioni Internazionali presso la Società Italiana per l'Organizzazione Internazionale (SIOI). Ha lavorato come giornalista a Roma occupandosi di politica e affari esteri. Per la Voce di New York, è stata corrispondente dalle Nazioni Unite a New York. Collabora anche con "7-Corriere della Sera", "L'Espresso", "Linkiesta.it". Considera la grande letteratura di ogni tempo il "rumore di fondo" di calviniana memoria, e la lente attraverso cui osservare la realtà.

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