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November 5, 2019
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L’ILVA, “l’immunità penale” e la libertà della Repubblica

Un Parlamento che “non si fidi”, “non si possa” fidare della Magistratura, è il segno sicuro di una regressione democratica giunta alle soglie della Tirannia

Fabio CammalleribyFabio Cammalleri
L’ILVA, “l’immunità penale” e la libertà della Repubblica
Time: 5 mins read

Il “buco” ILVA/Arcelor, per cui la multinazionale indiana ha ieri annunciato di voler recedere dall’acquisto, in quanto, “a decorrere dal 3 Novembre”, è cessata la cd. immunità penale (Protezione Legale”, formalmente), è tutto in una domanda: “se le condotte non punibili sono quelle in attuazione del Piano ambientale, perché rappresentano ex lege[…] *adempimento delle migliori regole preventive in materia ambientale, di tutela della salute e dell’incolumità pubblica e di sicurezza sul lavoro*, perché prevedere una scriminante ad hoc, quando sarebbe stato sufficiente, per l’autore del fatto, invocare la esimente comune prevista dall’art. 51 c.p. (esercizio del diritto)?” 

Se l’era posta, lo scorso Febbraio, il Gip presso il Tribunale di Taranto, animando così la sua ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale di una pensosa filigrana; pendeva un’indagine per fatti riguardanti lo stabilimento tarantino (estranei ad Acelor) e, ritenendo che la cd “immunità penale” ledesse (anche) il criterio della “ragionevolezza-razionalità”, così illustrava i suoi dubbi. La Corte, questo 9 Ottobre, ha poi restituito gli atti al Gip, perché le norme nel frattempo varate dal Governo Conte I, avendo abrogato la contestata immunità introdotta dal Governo Renzi, rendevano la questione superata.

Ora, l’interrogativo, se non bastasse “la esimente comune”, e fosse davvero necessario “prevedere una scriminante ad hoc”, rimane centrale. Il suo apparente superamento, infatti, riguarda lo  stretto diritto; ma lo stretto diritto è la superficie. Qui, nella presente vicenda repubblicana, dove il fondamento liberal-costituzionale dei “Poteri Distinti” è stato pressocché distrutto, interessano le profondità, anzi, gli abissi. Quelli nei quali si precipita, appunto, quando viene meno (perché tenacemente  scavato ed eroso) il proverbiale terreno sotto i piedi.

Perciò occorre osservare più da vicino le parole.

No: non “sarebbe stato sufficiente invocare la esimente comune”. Perché “comune” è tutto quello che è venuto meno fra i Poteri Legislativo ed Esecutivo, da un lato, e Giudiziario, dall’altro. 

Anche nella qualità testuale di quell’istituto (“esimente comune”), infatti, “comune” è aggettivo che rimanda ad una condizione pre-giuridica: nella quale la società politica è “comune”, perché “comune” è riconosciuta pur nelle sue molteplici componenti; “comune” la sua storia, “comune” la sua “cultura”, “comune” la sua “essenza umana”.

Sicché, pure una tale scriminante, come ogni altra norma, come ogni altro “momento” della vita associata, può funzionare, può bastare, se “comune” è questa disposizione di fondo: in ciascuno dei suoi cittadini, in ciascuna delle sue istituzioni, e, soprattutto, in chi, volta a volta, è chiamato ad incarnarle.

A ricondurre, per la “via comune” (art. 51 C.P.), “il Piano ambientale” entro la liceità penale, occorreva proprio quello che è mancato: “lo spirito comunitario”.

Il Piano era costruito sulle “migliori regole preventive in materia ambientale, di tutela della salute e dell’incolumità pubblica e di sicurezza sul lavoro”, si era rilevato.

Non era giusta una simile scelta? Non era equilibrata? Non era ragionevole? Certo che lo era. Allora perché, se bastava “leggere” questa scelta, così come si presentava nella norma, il Parlamento e il Governo nel 2015, vollero ugualmente la “scriminante ad hoc”?

Perché non si fidavano della Magistratura.

Perché è notorio che la Magistratura (le distinzioni, ovviamente, esistono fra le persone, non nell’Ordine) in Italia si riserva, meglio: afferma e teorizza che le spetti di riservarsi, sempre e comunque, “l’ultima parola”; convinta di non vivere in una dimensione “comune”, non riconosce dignità “comune” alle altre Istituzioni della Repubblica; e ritiene che fra sè e la società umana, fra sè e quelle Istituzioni, non sia ci sia nulla di “comune”, e tutto, invece, da essa la separi.

Tentativo ignaro della propria impotenza, verrebbe da dire, quello di Renzi.

Come se per il Potere Politico, l’unico “di tutti” (note le “genealogie di libertà”, per “Legge” e “Parlamento”), fosse faccenda di superficie e non questione di fondamenti; di norme e non di poteri; di excamotages e non di progetti; e potesse, la Legittimità Politica, ritrovare la sua autonomia reale senza mai affrontare chi, come l’ANM, statutariamente la nega; come se si potesse, per dirla con Churchill, “discutere con la tigre lasciando la testa fra le sue fauci”; come se, schivando una giusta battaglia, non si conseguisse altro che una vile servitù.

E si potessero ideare e animare libertà e democrazia, senza rivendicare la vicenda repubblicana nella sua verità: di partiti, di rappresentanza quale rispecchiamento di imperfezioni, di mezze misure: uniche garanzie da impostori e turlupinatori in assetto perenne. 

La Repubblica, dunque: nella quale, maggiori, infinitamente maggiori, sono stati i meriti dei demeriti. E i lutti e il dolore, possono e debbono certo ricevere il rispetto della memoria; il valore esemplare e testimoniale del singolo sempre trovare ogni dignità. Ma mai, mai, fatti assurgere a criterio unico e preponderante, per giustificare una nuova, sciaguratissima mimesi del Peccato Originale, a cui può fare da pendant solo un costante, duro, diffidente, e assolutamente necessario Apparato punitivo ed espiatorio. 

Questa pretesa della Magistratura è stata ed è rinfocolata e sostenuta da schiere di chierici e gazzettieri, e, ormai, anche da una folta ruffianeria pseudoparlamentare, pseudosovrana, e, inevitabilmente, anche pseudoforense: votata a tramandare e consolidare simile riedizione del Sant’Uffizio.

S’intende come un Parlamento che “non si fidi”, “non si possa” fidare della Magistratura, sia il segno sicuro di una regressione democratica giunta alle soglie della Tirannia.

D’altra parte, un Governo, come il Conte I, che, persino in una vicenda così complessa, e così refrattaria a modellarsi nel rozzo monolite penalistico, puramente e semplicemente, rivendichi il merito di avere fatto quello che era stato prospettato in sede giudiziaria, conferma a quale grado di esiziale confusione, e asservimento, sia giunto lo squilibrio dei Poteri nella Repubblica.

Al segno che la questione di costituzionalità si è potuta ritenere “superata”, proprio per effetto della compiuta coincidenza, fra Decreti varati da quel Governo e termini della questione stessa.

Di Maio, a Giugno, aveva annunciato trionfante: “Il problema dell’immunità penale è risolto, perché l’immunità penale non esiste più”; e chiosando: “La Corte Costituzionale si sarebbe espressa sull’immunità penale probabilmente in autunno”.

“Il problema dell’immunità”. Anche quello del lavoro, del Sud, della libertà, della Repubblica. Tutto risolto. Sciolto. Dissolto.

   

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Fabio Cammalleri

Fabio Cammalleri

Il potere di giudicare e condannare una persona è, semplicemente, il potere. Niente può eguagliare la forza ambigua di un uomo che chiude in galera un altro uomo. E niente come questa forza tende ad esorbitare. Così, il potere sulla pena, nata parte di un tutto, si fa tutto. Per tutti. Da avvocato, negli anni, temo di aver capito che, per fronteggiare un simile disordine, in Italia non basti più la buona volontà: i penalisti, i garantisti, cioè, una parte. Forse bisognerebbe spogliarsi di ogni parzialità, rendendosi semplicemente uomini. Memore del fatto che Gesù e Socrate, imputati e giudicati rei, si compirono senza scrivere una riga, mi rivolgo alla pagina con cautela. Con me c’è Silvia e, con noi, Francesco e Armida, i nostri gemelli.

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