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La legalità non si studia, si testimonia: la visita al Museo Falcone e Borsellino

Siamo stati guidati dal "custode testimone" Giovanni Paparcuri al "bunkerino", l'area del Palazzo di Giustizia da cui i due magistrati sfidarono la mafia

Paola CecchinibyPaola Cecchini
La legalità non si studia, si testimonia: la visita al Museo Falcone e Borsellino

Il "bunkerino" di Falcone e Borsellino

Time: 5 mins read

‘Paolooo!’ – urlava il giudice Falcone verso l’ufficio del dr. Borsellino che gli aveva nascosto una delle sue amate papere lasciando un biglietto ‘Se viva la vuoi rivedere, cinquemila lire mi devi dare!’.

‘Sento ancora le loro risate in quei giorni difficili‘- mi racconta Giovanni Paparcuri mentre mi accompagna nella visita del cosiddetto ‘bunkerino’, come veniva chiamata l’area blindata in cui furono trasferiti per ragioni di sicurezza i giudici Falcone e Borsellino nel Palazzo di giustizia di Palermo (ideato da Rocco Chinnici verso gli inizi del 1980 e guidato dopo il suo assassinio dal giudice Antonino Caponnetto, il pool antimafia comprendeva altresì i giudici Giuseppe Di Lello, Leonardo Guarnotta ed in seguito Giacomo Conte, Gioacchino Natoli e Ignazio Di Francisci che lavoravano negli uffici che si affacciano nel corridoio).

Forte personalità e schiena dritta, Paparcuri (che eccezionalmente guidava l’auto del giudice Chinnici proprio il giorno della strage di cui fu l’unico superstite) fu cooptato da Borsellino al suo ritorno a Palazzo dove era stato declassato di due livelli mansionari e retributivi.

‘Conosceva la mia passione per l’informatica e mi chiese di aiutarli. Fu una sorta di premio, come essere nato una seconda volta ma nello stesso tempo un onore ed anche un onere. Il dr Borsellino non si dava pace che tutti i dati del Palazzo di Giustizia fossero in mano ad un’impresa privata esterna …da lì cominciai creando una banca dati (che ancora oggi porta il mio nome, di seguito ereditata dalla Procura) internalizzando il sistema’.

Poi passò alla microfilmatura degli atti del cosiddetto ‘Maxiprocesso’ (cui seguiranno il bis, il ter  e il quater) a tutt’oggi il più grande processo penale mai celebrato al mondo (in primo grado gli imputati erano 475 e 200 gli avvocati difensori).

‘Il pomeriggio che lasciò il tribunale di Palermo diretto a Roma, il dr Falcone mi chiese se avevo ancora un sigaro – racconta Giovanni – Ne avevo mezzo. Lui lo fumò e andando via gettò la scatola nel cestino. Io, non so perché, la raccolsi’.

Giovanni Paparcuri con Paola Cecchini al museo Falcone e Borsellino

Quella scatola è stata la prima cosa che Paparcuri ha riportato al Palazzo di Giustizia quando gli hanno detto che l’Associazione Nazionale Magistrati (presieduta da Matteo Frasca), unitamente  alla Corte di Appello di Palermo ed alla fondazione ‘Progetto Legalità Onlus’, voleva far rivivere le stanze bunker (ridotte a poco più di un ripostiglio),  il fortino del primo assalto a Cosa Nostra.

Giovanni ha  voluto fortemente ‘il museo’ (‘sapevo che prima o poi ci sarei riuscito’) scovando negli archivi e magazzini i pezzi dell’arredo di quegli uffici che ben conosceva e poi caricandoli letteralmente nei camioncini: i computer e le macchine da scrivere utilizzate all’epoca (il dr Borsellino scriveva con sole due dita ma era velocissimo), i floppy disk con le dichiarazioni di Buscetta, gli apparecchi di videosorveglianza, gli armadi, le sedie, l’ultima scatola di toscani (i sigari preferiti da Falcone), le sue amatissime penne stilografiche, le papere di legno,  i portaceneri sempre pieni di cicche, gli appunti a mano sui processi…

Ed ancora…la cassaforte (con la chiave appesa fuori della maniglia), la bottiglia di Chivas (che spesso vi trovava riparo), borse e cappotti originali forniti dal Ministero e da questi ritenuti ‘blindati’, una montagna di fotocopie degli assegni sequestrati da Falcone nel corso di un’inchiesta. Il cosiddetto ‘metodo Falcone’ era una vera e propria filosofia d’indagine basata sull’attenzione ai documenti finanziari, agli scambi di assegni, alle impronte che il denaro lascia sempre dietro di sé, dato che ‘la droga può anche non lasciare tracce ma il denaro le lascia sicuramente’ (per la prima volta il pool fu coadiuvato da una squadra della Finanza che lavorava in corridoio).

Di certo quello non era un ufficio giudiziario come gli altri. C’è chi lo ricorda come un cerchio magico rispetto al Palazzo dei Veleni (come veniva chiamato il Palazzo di Giustizia), alla città di Palermo, alla Sicilia, a quell’Italia assuefatta dalla secolare tracotanza del sistema di potere politico mafioso che dominava incontrastata l’economia. 

‘Non mi piace chiamarlo museo – spiega Paparcuri – la parola ‘museo’ mi ricorda qualcosa di vecchio e di polveroso ed essendo l’unico ancora in queste stanze, mi parrebbe di essere un fantasma.  Questo non è un luogo di morte, ma di vita. Qui si può cogliere il lato professionale dei giudici ma anche quello umano: erano uomini allegri, scherzosi e si facevano molti dispetti a vicenda’. 

Quando lo guardo incerta, continua:

‘Non posso dimenticare il giorno del mio matrimonio! Gli ospiti quasi non si accorsero di noi sposi, le attenzioni erano tutte per loro che facevano cabaret, raccontavano barzellette e scherzavano con tutti. Anche in chiesa:  dovettero essere ripresi letteralmente dal prete durante la funzione!

‘Dall’apertura (26 maggio 2016) ho incontrato oltre 15.000 persone, provenienti da tutt’Italia, moltissimi dal Nord, ma ci sono anche tanti siciliani – prosegue –  Sono in pensione da diversi anni ma continuo a venire qui, a lavorare con i ragazzi delle scuole perché a  loro vanno insegnati i veri valori della legalità, cioè essere persone oneste nella vita e rispettare sempre le regole.  Uscendo da questi locali devono avere bene in mente che Falcone e Borsellino non erano eroi, ma persone normali come noi, persone che hanno lottato per una causa giusta, per la legalità, come tutti possiamo e dobbiamo fare. La loro preziosa eredità non deve essere dispersa se vogliamo davvero che le loro idee restino e continuino a camminare sulle gambe di altri uomini’.

‘Palermo oggi è sicuramente cambiata. Non abbiamo di certo sconfitto la mafia, abbiamo vinto soltanto qualche battaglia. È cambiata però la società civile:  i ragazzi venticinque anni fa non avrebbero mai pensato di venire qui e neanche sarebbero venuti i giornalisti ad intervistarmi.

Prima, di certi argomenti, non si poteva proprio parlare. Adesso sì. Ogni tanto se ne straparla pure, come nel caso della cosiddetta ‘finta antimafia’. Penso che ognuno di noi debba combattere nel proprio piccolo la cultura mafiosa, le raccomandazioni, le strade facili, perché non sono mai quelle giuste e comunque poi si deve restituire il favore’.

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Paola Cecchini

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