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Strage di Christchurch, quando un “normale uomo bianco” diventa antiuomo

Brenton Tarrant, tra gli autori della strage in Nuova Zelanda, si è definito “un normale uomo bianco”, aggiungendo: “Voglio uccidere gli stranieri invasori”

Fabio CammalleribyFabio Cammalleri
Strage di Christchurch, quando un “normale uomo bianco” diventa antiuomo

In alto a sinistra, una donna piange dopo la strage. In basso a sinistra, le forze dell'ordine. A destra, Brenton Tarrant, uno degli autori della strage.

Time: 4 mins read

“Aberrazione” è concetto quasi misterioso: coniuga il massimo di incertezza con il massimo di certezza. Perché “aberrare”, di cui esprime l’azione, viene dal combinarsi di “errare”: “andar vagando senza sapere dove”, come ci rammentano anche i derivati “errabondo”, “erratico”, e di “ab”, particella latina che sappiamo designare allontanamento da un punto, il “moto da luogo.”

La certezza iniziale, si smarrisce nel suo contrario, il finito nell’infinito. Non sappiamo dove conduce, l’aberrazione: ma sappiamo da dove nasce. Estranea nel suo svolgimento, ci è familiare nella sua origine.

Questa natura apparentemente contradditoria, di ciò che siamo soliti qualificare “aberrante”, come una strage di persone raccolte in preghiera, perciò, inermi e ignare, si riflette in quella immediata sensazione, di smarrimento e sollievo insieme, che segue all’apparire di un’aberrazione.

Smarrimento per la dismisura, tale da impedire qualsiasi intendimento di cause ed effetti. Sollievo per la distanza, che quella stessa impossibilità frappone fra noi e l’aberrazione. È un altro mondo; no, di più: un’altra dimensione. Ci è incomunicabile, assolutamente, irrevocabilmente estranea.

C’è ancora quella particella, però. C’è “il luogo”, noto, certo, da cui ha avuto origine il moto aberrante.

Ha scritto Brenton Tarrant, uno degli autori della strage a Christchurch, Nuova Zelanda, di essere “un normale uomo bianco”.

“Normale” è la parola che salta subito all’occhio. Falsità lineare: nessuno, “normalmente”, agisce come lui ha agito. C’è poi il seguito: “uomo bianco”. Anche questa sembra locuzione falsa, riferita all’omicida.

Ma qui, probabilmente, qualcosa cambia. Il sollievo che il concetto di “aberrazione” poteva assicurarci, pare attenuarsi; e lo smarrimento, invece, comincia a mordere, ad incunearsi in profondità nella coscienza morale di chi osserva.

Tuttavia, questo turbamento che scombina quella immediata “consolante contraddizione”, smarrimento/sollievo, può colpire l’ “uomo bianco” proprio perché è “uomo bianco”. “Bianco” era Kant, l’istitutore della “coscienza morale” ordinata all’armonia cosmica; “bianco” era Socrate, per cui “subire un’ingiustizia è meglio che commetterla”; “bianco” è ciascuno che si conduce in questi termini. E sono i più. Ma non tutti.

Fra questi ultimi, rileviamo, quasi nessuno che spari; nessuno che titilli una selva di fucili e caricatori variamente istoriati con nomi scopiazzati qua e là, e si ritragga mentre lo fa, e documenti l’abisso. Qualcuno che spara c’è, in verità: Andres Brevick, e altri evocati in una sinistra risonanza di cupezza e violenza radicale; c’è anche Luca Traini.

Ma questa cornice che condivide le tenebre non è ancora la ragione del turbamento. Tutti questi sciagurati sono anch’essi distanti, platealmente distanti da noi che leggiamo.

L’origine nota, il “luogo familiare”, il “punto d’origine” a cui quella frase impudica, “sono un normale uomo bianco”, riconduce fastidiosamente è: “uomo”.

Come, un uomo, può diventare l’antiuomo? L’ignoto che rassicura con la sua distanza, svelarsi vicino, prenderci con uno smarrimento senza più consolazione, senza alcun sollievo?

Con le parole, con i pensieri, con cui “l’uomo bianco” tradisce “l’uomo bianco”. Ecco come. Con cui il Kant, il Socrate che possono esserci in ciascuno di noi, sono negati, traditi. Con cui l’uomo, pertanto, e semplicemente, disconosce l’uomo. A simili parole, a simili pensieri, sempre, prima o poi, più o meno crudeli e violente, seguono azioni congruenti. Il Novecento, è stato anche l’abbecedario di un durevole discorso dell’orrore, per l’orrore, sull’orrore. È tutto lì.

Le parole, i pensieri. Tarrant ci lascia, infatti, anche una seconda frase: “Voglio uccidere gli stranieri invasori”.

Le parole “Stranieri” e “invasori”, non sono, per sè sole, le cause della strage. Ne sono però il punto d’origine, il “luogo noto” da cui si è mossa l’aberrazione, quel “andar vagando senza sapere dove”, a partire da un “dove”. Parole di uomini verso altri uomini.

La tenebra è già sorta quando l’uomo è obliquamente trasfigurato in un’alterità: “straniero”, “infedele”. L’alterità è tale perché altera: sostituisce parole a parole, e prepara l’azione.

“Uomo”/“Straniero”.“Migrazione”/”Invasione”.“Affrontare”/”Uccidere”.

Si può aver cura dell’uomo, di sè, degli altri, se si ha cura delle parole. Se si governano gli uni e le altre. E gli uni per mezzo delle altre.

Chi non sa, o non vuole governare le parole, non sa o non vuole governare gli uomini. Chi decide di ignorare, obliquamente trasfigurandolo, il comune “punto d’origine”, “l’Uomo”, giorno dopo giorno, pensiero dopo pensiero, parola dopo parola, prepara l’aberrazione.

La Nuova Zelanda è l’antipode geografico dell’Italia. L’antipode è il punto della terra diametralmente opposto. Il diametro è il segmento che unisce due punti di una circonferenza passando per il centro. Per “l’origine”.

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Fabio Cammalleri

Fabio Cammalleri

Il potere di giudicare e condannare una persona è, semplicemente, il potere. Niente può eguagliare la forza ambigua di un uomo che chiude in galera un altro uomo. E niente come questa forza tende ad esorbitare. Così, il potere sulla pena, nata parte di un tutto, si fa tutto. Per tutti. Da avvocato, negli anni, temo di aver capito che, per fronteggiare un simile disordine, in Italia non basti più la buona volontà: i penalisti, i garantisti, cioè, una parte. Forse bisognerebbe spogliarsi di ogni parzialità, rendendosi semplicemente uomini. Memore del fatto che Gesù e Socrate, imputati e giudicati rei, si compirono senza scrivere una riga, mi rivolgo alla pagina con cautela. Con me c’è Silvia e, con noi, Francesco e Armida, i nostri gemelli.

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