Dopo quasi un mese in cui le immagini strazianti dei circa duemila bambini messicani separati dai loro genitori hanno fatto il giro del mondo sollevando polemiche anche all’interno della stessa Casa Bianca, il presidente Donald Trump è stato aspramente condannato dall’ONU, che ha definito la situazione al confine messicano “inaccettabile”. Trump, nel tentativo di fermare il flusso di migranti dal Messico verso gli States, ha aumentato i controlli alla frontiera che prevedono che chiunque venga sorpreso a varcare illegalmente il confine, sarà incriminato e detenuto in attesa di giudizio e, per questo, separato dai propri figli. La protesta contro le sue misure a “tolleranza zero” ha avuto risonanza internazionale e ha scosso le coscienze di molti attivisti, ma anche di un gruppo di artisti che ha reagito alle politiche del presidente in formato tabellone pubblicitario, il collettivo Indecline.

Chi si fosse trovato lungo la Interstate 80 nella baia orientale della California qualche giorno fa, potrebbe aver visto apparire davanti ai suoi occhi quello che sembrava essere un cartellone pubblicitario per l’ICE, l’Immigration and Customs Enforcement, sul quale appare la scritta “WE MAKE KIDS DISAPPEAR” insieme al volto di un bambino biondo scioccato e urlante.
Indecline è un collettivo di attivisti e artisti americani socially engaged fondato nel 2001 che comprende writers, filmmakers, fotografi, ribelli e attivisti. Il collettivo lavora con l’arte pubblica sui temi delle ingiustizie sociali, ecologiche ed economiche condotte da governi americani e internazionali, da multinazionali e forze dell’ordine.
Gli artisti hanno agito nell’ombra: si sono arrampicati durante la notte, incappucciati e armati di rulli e pittura, fin sopra la struttura che regge il tabellone pubblicitario, che originalmente promuoveva l’attività di rimozione di spazzatura dell’“1-800-Got-Junk?”. Lo hanno rielaborato e lo hanno trasformato in un’azione provocatoria e accusatoria nei confronti dell’ICE, documentando la loro azione artistica con un video che è stato diffuso dal Washington Post.

La scelta di mantenere il volto di un bambino bianco, biondo e con gli occhi chiari, è un chiaro riferimento alla sensibilità parziale e monca di una classe di benpensanti repubblicani americani a cui il duro cuore non si spezza se non di fronte al un livello di empatia legato all’immaginario classista della propria ristretta cerchia di estrazione. Come se gli artisti volessero far leva sui neuroni a specchio di un’élite che non risponde a stimoli emotivi. La scelta di lavorare attraverso un mezzo di comunicazione impattante, diretto e invadente come un cartellone pubblicitario lungo un’autostrada, dichiara guerra alla politica giocata a colpi di tweet, a colpi di dichiarazioni virtuali che si ripercuotono sulla pelle di famiglie, di minori indifesi e incolpevoli. Ma la denuncia di Indecline non è stata l’unica espressione di polemica e opposizione artistica alle politiche del presidente Trump.

Sempre nei giorni scorsi, Rob Rogers, editorialista e fumettista satirico del Pittsburgh Post – Gazzette, è stato licenziato per aver proposto delle vignette a sfondo politico profondamente scomode e pungenti, dalla grandissima risonanza mediatica. Tra questi, una in particolare è stata proiettata sull’edificio federale di San Francisco: proprio la vignetta politica rappresentante il tema della separazione dei bambini dai genitori al confine. L’immagine esprime il tema della paura e della fuga attraverso un cartello stradale di “attenzione” in cui le silhouette di due genitori che attraversano la strada fuggono dal profilo di un Trump che, quasi come un mostro che sbuca da sotto il letto negli incubi dei più piccini, acciuffa la figlia. Un esplicito avvertimento non solo alla popolazione entrante, ma anche agli americani e ai sostenitori repubblicani: abbiamo un mostro in casa nostra.

Anche l’ultima copertina del New Yorker firmata Barry Blitt, storico illustratore satirico per diversi periodici statunitensi, con la delicatezza dell’acquarello e la forza della scena rappresentata, coglie nel segno ciò che sta accadendo per quanto riguarda la gestione dei minori, figli di immigrati illegali. L’immagine è straniante, a doppio taglio: da un lato, mostra con tenerezza dei bambini intimoriti che si nascondono tra le pieghe della gonna di una mamma, di un adulto che li faccia sentire sicuri e protetti, come è capitato durante l’infanzia a ognuno di noi. Dall’altro, quella stessa grande madre veste di freddo metallo, ed è la Statua della Libertà: una madre negata, una libertà negata, un’accoglienza negata che non è più la terra promessa che abbraccia e solleva, quella del sogno americano. Quell’America del sonetto di Emma Lazarus, riportato alla base della statua, che nel 1883 scriveva:
“Tenetevi, o antiche terre, la vostra vana pompa – grida essa con le silenti labbra – Datemi i vostri stanchi, i vostri poveri, le vostre masse infreddolite desiderose di respirare liberi, i rifiuti miserabili delle vostre coste affollate. Mandatemi loro, i senzatetto, gli scossi dalle tempeste e io solleverò la mia fiaccola accanto alla porta dorata”