“Finché non la vidi, pensavo fosse solo una fantasia dei lici che vivevano tra capre, leoni e serpenti. Chimera aveva un corpo immenso, duro e grigio come la roccia e si estendeva dal mare al cielo. Emanava saette di fuoco da ogni piega della pelle coriacea e, nell’istante in cui cercai di avvicinarmi, Pegaso diede uno scarto e mi ritrovai proiettato nel cielo con la lancia in pugno. Quando ricaddi a terra, l’avevo trafitta. Fu come un terremoto. Il suo corpo si frantumò in miriadi di pietre che cominciarono a rotolare a valle con un boato immenso. Ma non ne ho sconfitta l’essenza: il suo fuoco arde ancora tra quelle pietre di cui ha sempre fatto parte. Chimera si è solo trasformata a ricordare che ogni stagione è alimentata dal fuoco eterno, ma la nostra vita è una metamorfosi continua. L’esistenza è Chimera. Pensavo che uccidendola sarei diventato immortale e avrei donato l’immortalità agli uomini. Rimarremo sempre soggetti alla sua legge. Grazie per il fuoco”.
Dovevo arrivare nell’antica Licia, regione sud occidentale della Turchia, e percorrere a piedi un chilometro in salita lungo un sentiero deserto che costeggiava un dirupo, per capire chi fosse stata Chimera, il mostro dalla testa di leone, il corpo da capra e la coda a serpente. Seduta su un masso di quel costone a 300 metri dal mare, lo osservavo eruttare piccole fiamme perenni (emesse dalla combustione di gas metano) e ascoltavo l’eroe Bellerofonte che parlava solo a me.
Secondo il mito, il giovane principe greco Ipponoo aveva ucciso Bellero, re di Corinto, ed era stato soprannominato Bellerofonte, che significa: uccisore di Bellero. Per espiare la sua colpa, ma in realtà per essere ucciso, era stato inviato a Tirinto, tuttavia il re Preto, non potendo trasgredire la xenìa, la legge etica dell’ospitalità, l’aveva mandato da Iobate, il re di Licia. Secondo la stessa legge, Iobate non poteva assassinarlo e gli affidò il compito di combattare Chimera, ma Bellerofonte sopravvisse. Lo inviò allora a sconfiggere i nemici solimi e le amazzoni. E l’eroe ritornò ancora vittorioso. Il re, ammirato, gli diede in sposa la figlia Filinoe e gli affidò il trono.
Erodoto scrive: “I lici prendono il nome dalle madri e non dai padri”. E Nicola di Damasco: “I lici trasmettono l’eredità alle figlie, non ai figli. E fin dall’antichità sono governati dalle donne”.
E’ evidente che i greci invasori cercarono di colonizzare la Licia e introdurre le loro leggi: il mito di Bellerofonte nobilita la soppressione delle antiche consuetudini matrilineari. Chimera simboleggiava l’antico anno ripartito in tre stagioni, voluto dalla triplice dea. Verrà soppiantata dagli dei olimpici e una chimera sarà nient’altro che un fuoco fatuo. In questo luogo sperduto ho appreso invece che un sogno non è mai vano e alimenta la vita.
A 7 chilometri da Chimera, c’è Olympos, dove il divino è mare, monte, luce ed è vicino, si può raggiungere. Ho camminato con foga un bel po,’ affondando nella spiaggia sassosa di Cirali, finché sono arrivata in fondo, ai piedi del Monte Musa, la dea della montagna, che nasconde un sentiero lungo un torrente: conduce a resti greci del IV secolo a.C., più recenti rispetto alla misteriosa sacralità che emana il luogo. C’è l’imponente portale del tempio greco di Efesto, dio del fuoco, qualche muro di una basilica, una fortificazione veneziana e, proseguendo, una estesa necropoli con la tomba di Alcesti, che scelse di morire al posto del suo sposo Admeto. Grande era il silenzio, ma ci sarebbe stato molto da ascoltare.
Ho cenato piacevolmente sulla spiaggia, ad un tavolo del ristorante Ikiz, fino a che monti, mare e cielo sono diventati del medesimo colore.
Dopo la notte precedente passata a Kemer, a una sessantina di chilometri da Antalya dov’ero atterrata, il mio intento era arrivare a Kalkan, paesino di pescatori alla moda e vicino a diversi siti archeologici. Ho guidato nella notte seguendo la strada costiera per circa 200 chilometri, senza navigatore. Ma le indicazioni stradali in Turchia sono ben ubicate e visibili. Ho scovato il Patara Prince Hotel & Resort, un complesso lussuoso e raffinato sul mare. I direttori Mehmet Boke e Ismail Serbest mi hanno immediatamente colmata di attenzioni, offerto un’ottima cena, così ho deciso di rimanere lì due notti. La mattina ho percorso 15 chilometri e sono arrivata a Patara, dove il mito narra sia nato il dio Apollo, il signore della luce. La città, primo porto dell’antica Licia situato sull’estuario del fiume Xanto, era molto vasta. Per prima cosa dovevo vedere il mare e la sua luce. Ho posteggiato vicino alla magnifica spiaggia lunga 22 chilometri, mi sono tolta le scarpe e ho camminato nel vento affondando nella sabbia soffice. Apollo c’era, forse perché lì c’eravamo solo io e lui. Il mito comunque narra che durante i sei mesi invernali ritorni in patria dall’isola di Delo. Il re di Atene Egeo aveva scacciato il fratello Lico, che era approdato nel paese Trmmisa, che da lui prese il nome greco di Lykia, chiamato dagli ittiti Lukka. Lico è anche il nome di Apollo e lykoi sono i lupi che guidarono la madre Latona fino al fiume Xanto dove partorì, fuggendo all’ira della dea Era, tradita da Zeus.
Vicino al grande teatro, nel 2011 è stato ricostruito parzialmente l’edificio dell’Aseemblea della Lega licia, eretto nel primo secolo a.C. che poteva ospitare fino a 1400 persone. Impressionano la maestosità e l’importanza che doveva avere. Io sono per la ricostruzione perché dà la possibilità di capire com’erano un’opera, un luogo.
Dopo 18 chilometri raggiungo Xanto, antica capitale della Licia, protetta dall’Unesco. Scendo per la strada al tempio delle Nereidi e non lo trovo. Risalgo e mi informo. Mi dicono che è rimasto solo il basamento: gli inglesi se lo sono portati via a metà Ottocento insieme ad altri sei o sette monumenti. Restituiscano le Nereidi e paghino il dovuto: interessi e multa secolare. Loro come i tedeschi e i francesi che hanno rubato il rubabile in Grecia, Mesopotamia ed Egitto. Bene hanno fatto i greci a presentare il conto alla Merkel. Che ipocrisia farne patrimonio dell’Umanità quando hanno lasciato solo parallelepipedi. Hanno sradicato l’anima del luogo. Mi incammino lungo la strada principale verso la necropoli e quando mi inoltro nella sterpaglia sento: pam, pam, pam. Mi giro e cerco di vedere chi è. Silenzio. Riprendo il cammino, lo stesso rumore. Sarà stato un matto, sarà stato un dio, me la sono data a gambe. E sì che la salita a Chimera era stata molto più impressionante.
Proseguo in auto per Letoon, dove Latona trovò l’acqua per dissetare il figlio Apollo. In un paesaggio bucolico con le pecore che brucano, ci sono i templi di Latona, Artemide e Apollo, un teatro e un ninfeo. Riparto velocemente perché voglio risalire l’antica Via licia prima che venga buio. Percorro una ventina di chilometri di tornanti, mi perdo per le montagne, infine arrivo a Sydima: due case. Mi viene incontro una piccola donna turca sorridente, con due occhi acquamarina nel viso rubicondo ed abbronzato, che mi domanda nella sua lingua se voglio vedere le tombe. Non so come la capisco, dico evet, sì e mi fa cenno di seguirla. Apre un varco tra gli arbusti e mi tende la mano per attraversare un muretto. Mi appare uno spettacolo incredibile: in un vasto prato una serie di grandi tombe a casetta e le mura di un edificio. Mi chiede quanti figli ho, lei due, gusel, che sono bella dice. Che c’è, kece ripete: indica una capretta che sta con le zampe posteriori eretta su un sasso e sembra osservare che c’è. Nome perfetto. Ritorniamo e richiude il varco con gli arbusti, casomai qualcuno osasse incamminarsi senza di lei tra le sue tombe. Mi invita a bere un chay, tè, sul terrazzo, si fa per dire, di casa sua. Poi mi espone la sua mercanzia: tappeti, foulard, miele e creme di bellezza. Le avrei dato comunque una mancia, ma capisco che per lei sia più dignitoso vendermi qualcosa. Mi sistema un foulard in testa, me lo tolgo immediatamente e la informo che comprerò il miele. Mi spara una cifrona, pago osservando che è caro perché sappia che non sono scema. Poi mi dà il biglietto da visita di suo marito: la mia nuova amica Bediha Mete vuole che le mandi una mail. Gulè, gulè, arrivederci, mi dice. Ed io: tesekkur ederim, grazie. Grazie davvero.
Mi riperdo tra le montagne, ma alla fine raggiungo il Patara Prince Hotel, dove mi aspetta una buona cena. La mattina dopo parto presto perché voglio arrivare in serata ad Antalya. Finalmente percorro la Costa Turchese di giorno ed è uno spettacolo. Arrivo alla pittoresca cittadina di Kas, l’antica Antiphellos e visito il suo teatro che ha una superba posizione vista mare. Il golfo è magnifico e completamente riparato da insenature e promontori. Mi fermo a bere un succo fresco di melograno da Sofa, un delizioso cafè-bistrò tra i buganvillee. Il padrone di casa, un golden retriever, mi blocca appoggiandosi contro le mie gambe con tutta la sua mole: tu di qua non te ne vai. Rimarrei volentieri, caro.
La strada sale, comincia a piovere, nevica, sono 4 gradi, la temperatura è scesa di una ventina di gradi. Dopo dieci minuti smette di nevicare, ma non fa più tanto caldo. A Demre giro per Myra. Viene un acquazzone e mi rifugio in un nuovo negozio, Cycolata, gestito da tre ragazzi e compro noccioline, lukum, dolcetti alla rosa, e saponi.
Il sito rupestre di Myra è famoso per le incredibili tombe scavate nella roccia. Era una delle sei più importanti città della Licia, assieme a Xanto, Patara, Olympos, Pinara e Tlos. Ma è conosciuta anche perché qui era vescovo San Nicolò, nato a Patara, e passato alla storia come Babbo Natale. Cerco la sua chiesa, ma mi imbatto solo in un orribile prefabbricato con grandi quadri naif del santo sulle pareti esterne.
Mi fermo a Phaesellis, la città dei tre porti: oggi è solo un bel sito contornato da tre incantevoli baie.
Raggiungo Antalya verso le sei di sera, ma perdo molto tempo a trovare il Puding Hotel, situato nella città vecchia di Kaleici, il cui accesso è delimitato da una sbarra. Un delizioso design hotel che si estende in varie abitazioni antiche intorno a un giardino con piscina. Cena squisita allo sciccoso ristorante dell’albergo, e scopro che lo chef è italiano: Michele Serafini. A Perugia aveva un ristorante stellato, ma combatteva tra balzelli e problemi gestionali, da cinque anni vive in Turchia ed è entusiasta. L’indomani, dopo la visita al museo archeologico con la splendida sala degli dei, lo dedico allo shopping a Kaleici: acquisto convenienti borse in pelle fatte in Turchia per i marchi più famosi alla boutique La Pera, gestita dai fratelli Aydin e Celan. Riesco perfino a comprare un kilim trattando fino allo stremo con Tahir Erkan, titolare della galleria di tappeti Gulizar. Poi mi rilasso nell’hamann dell’albergo e ritorno a cena dallo chef Serafini.
Non ho potuto visitare tutti i siti lungo il percorso, ma le costruzioni più antiche sono sempre tombe, mentre quasi tutte le altre risalgono all’epoca greca o romana. Gli antichi lici dovevano nutrire un gran rispetto per i genitori, tanto da divinizzare gli antenati. Nei momenti di sconforto, se ci pensiamo, è ai propri cari defunti che chiediamo consiglio. Rispetto da cui deriva il valore dell’ospitalità che è rimasto invariato nei secoli.
“Simile a foglie è la stirpe degli uomini… l’una cresce, l’altra declina – risponde nell’Iliade Glauco, il nipote di Bellerofonte, all’eroe Diomede, che sulla piana di Troia gli chiede di chi è figlio. Ma quando questi rammenta che suo nonno Eneo aveva ospitato Bellerofonte, convengono che non possono combattere e si scambiano le armi in segno di antichi paterni ospiti.