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December 6, 2013
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La comunicazione violenta di quei bimbi in curva

Riccardo GiumellibyRiccardo Giumelli
Time: 4 mins read

Sono rimasto sorpreso, negativamente sorpreso, dai cori d’insulto dei bambini tifosi della Juventus durante l’ultima partita di campionato. Bambini che occupavano la curva, normalmente adibita agli ultras ma a loro chiusa da provvedimento disciplinare in questa occasione.

Tuttavia, non voglio affrontare il tema calcistico, violenza o volgarità negli stadi e nemmeno gli aspetti pedagogici sui motivi che possono spingere quei ragazzi all’urlo da ultras, quanto prendere atto di una tendenza sempre più diffusa in Italia: una frequente violenza verbale esibita, mediatizzata, volgarmente rappresentata. Non che non esista in altri paesi, ma quanto sta accadendo con continuità da alcuni anni, con sempre più veemenza in confronto con altri luoghi del mondo, mi porta ad alcune riflessioni.

Scriveva il generale prussiano Carl von Clausewitz, più noto come scrittore e polemologo, nel suo famoso trattato Della Guerra: “La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi”. Possiamo prendere ancora per buona tale citazione, ma non può sfuggire che qualcosa stia cambiando, anzi probabilmente travolgendo tale assunto di partenza. Dove vogliamo andare a parare?

Le guerre, almeno nei paesi occidentali e dopo la Seconda Guerra Mondiale, sono fortemente diminuite. Gli Stati europei, che si sono violentati reciprocamente nel corso dei secoli, hanno raggiunto, dopo il 1945, un livello di relativa pace, seppur caratterizzata per decenni da una Guerra Fredda mai deflagrata in uno scontro sul terreno di battaglia. Ciò non vuol dire che se sono finite le guerre sia finita anche ogni forma di violenza, anzi questa continua nel modo più brutale che quotidianamente possiamo constatare dalla lettura dei giornali. Ma c’è violenza e violenza. C’è quella legittima e quella illegittima. C’è quella tollerata e quella intollerabile. C’è quella visibile e quella più oscura.

Nel corso degli anni la guerra più feroce è stata eliminata dallo scontro in campo aperto e rinchiusa sempre più nell’ambito politico democratico. I rappresentanti del popolo si scontrano dentro l’arena parlamentare e/o politica con gli oppositori affinché le proprie idee divengano veri e propri atti politici, e per questo vengono pagati. Lo scontro civile, ma spesso incivile, si riduce ad una sede controllata e controllabile. In ambito democratico l’aggressività per imporre le proprie idee passa da una violenza corporale ad una comunicativa, relazionata alla parola. Non si sconfigge l’avversario eliminandolo fisicamente ma distruggendone l’immagine ed estirpandogli il consenso affinché gli sia vietato l’ingresso nell’arena della lotta. La politica e la violenza fisica si sublimano nello scontro totale dialettico, comunicativo, che è legittimo perché non fa poi così male, non crea morti e feriti evidenti. Pertanto, ogni forma di comunicazione che non degradi nell’umiliazione indotta o nell’offesa diretta diventa lecita. E’ la nuova guerra delle parole, anche se dette in modo pacato, con lo scopo di annientare egualmente l’avversario.

Nondimeno, tutto questo non si limita al campo politico, anzi lo trascende per andare a riconfigurare il campo mediatico: dei giornali, della televisione, della rete, per poi tornare ad alimentare quello politico con maggior vigore, se non quello dei ragazzini negli stadi. La comunicazione, ad ogni livello, diviene modo per dare legittimamente forma alla carica aggressiva umana. Il tutto sostenuto da un linguaggio e un codice basato spesso su termini presi a prestito dal campo militare. L’arena della comunicazione è quindi il nuovo campo di battaglia.

Gli esempi sono veramente infiniti. La comunicazione diviene arma e strategia continua, dove ogni comunicatore assomiglia più ad un generale in battaglia che a un buon profeta che vuole educare. Non tanto Socrate, Gesù o Shakespeare, ma Tucidide, von Clausewitz, Sun Tzu e la sua arte della guerra. Essa è la nuova guerra fatta con altri mezzi, non più i fucili, le spade, le bombe, i cannoni ma le parole, le metafore, le espressioni figurate, gli insulti, le denigrazioni, attraverso quei richiami guerreggianti come ci ricordano i termini dei titoli sopra riportati.

Ci parrebbe di poter essere soddisfatti, ritenendo che almeno un certo tipo di violenza sia stata eliminata. Ma siamo sicuri che quella esclusivamente non fisica non sia altrettanto violenta? L’idea che avendo eliminato tale violenza l’uomo sia diventato, allo stesso modo, meno violento è pura illusione, dettata dall’inganno popolarmente diffuso come “occhio non vede cuore non duole”. Ma non è così. L’esproprio della violenza dalla sfera pubblica: la fine delle esecuzioni capitali nelle piazze, delle gogne, dei morti lasciati in strada a marcire; non significa che sia diminuita ma solo allontanata dallo sguardo perché in grado di prendere altre conformazioni.

Insultare… insultare, invece, sembra divenuto un atto quasi “democratico”, che si cela nella libertà di espressione. E in Italia siamo bravi in questo. Churchill diceva che combattevano “le guerre come fossero partite di calcio e giocavamo partite di calcio come fossero delle guerre”. Forse aveva ragione, ma certo non avrebbe potuto prevedere ragazzini allo stadio pronti all’insulto divertito.

Tuttavia, qui poniamo l’attenzione sulle nuove guerre realizzate attraverso le forme contemporanee della comunicazione. Se questo diviene un modo diffuso di agire, da tutti facilmente riconoscibile ma difficilmente modificabile, quella che potrebbe apparire come una conquista iniziale diventa l’ingenua convinzione che le parole non siano altrettanto feroci e crudeli, dagli effetti devastanti, quanto, ad esempio, una vera e propria tortura fisica.    

 

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Riccardo Giumelli

Riccardo Giumelli

Un aforisma che più di altri mi rappresenta è quanto scrisse Machiavelli, citando Boccaccio: “che gli è meglio fare e pentirsi, che non fare e pentirsi”. Come loro sono toscano, animo inquieto in cerca di porti per approdare e ripartire. Dopo gli studi in Scienze politiche, ho iniziato ad amare i libri, fare ricerca e scrivere, al punto da rimanere nell’Università, prima Firenze poi Trento. A Dijon e poi a Parigi, ho lavorato alla Camera di Commercio italiana e all’OCSE. Tornato in Italia, sono approdato a Verona, dove faccio ricerca e insegno. Intanto un matrimonio e due splendide gemelline. Mi occupo di sociologia, cultura e comunicazione. Tra tanti nuovi inizi e altrettanti epiloghi, una costante: ho sempre tifato Inter. Infatti soffro di stomaco.

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