Il 14 giugno di cinquant’anni fa, il Comitato centrale del Partito comunista cinese risponde alla lettera del 30 marzo del gemello sovietico. Il documento esce sul Quotidiano del popolo di Beijing il 17 giugno, consumando la rottura definitiva tra i due colossi del comunismo mondiale.
Tutto inizia con la morte di Stalin e il rapporto di Krusciov al XX Congresso del partito sovietico, nel febbraio 1956. Lo scomparso dittatore viene definito dalla dirigenza sovietica “tiranno capriccioso, fautore di un regime di sospetto, paura e terrore”, mentre per i leader cinesi resta, con Lenin, una delle “due spade” della lotta proletaria. Tempo qualche anno e maturano, sul piano dottrinario, le differenze di strategie: i cinesi intendono guidare la rivolta proletaria dei paesi poveri e sfruttati, i sovietici puntano sulla coesistenza pacifica con la potenza statunitense e sulla contestuale competizione socio-economica tra sistemi capitalista e socialista. Il documento cinese di fine primavera supera i primi scontri ideologici, anche in sedi ufficiali, sulla pretesa sovietica di restare alla guida della rivoluzione mondiale, nonostante le nascenti vie nazionali e il dissidio ideologico con i cinesi (e loro alleati come l’Albania). Accrescono la tensione le scelte di Mosca, contrarie agli interessi di Beijing, sul nucleare e sul Tibet. Si aggiunga che, per ritorsione, l’Urss non esita a ritirare i quadri tecnici che operano a supporto dello sviluppo cinese e castigare gli albanesi ovunque risulti possibile.
La lettera cinese identifica in 25 punti il dissenso con la patria del socialismo realizzato. Mao e Zhou Enlai, che ne sono gli ispiratori, dedicano i primi 19 punti al profilo dottrinale, lasciando ai 6 finali le questioni politiche. Il partito cinese si erge a difensore dell’ortodossia marxista-leninista, evidenziando come i correligionari sovietici soffrano di imborghesimento e non siano più “il partito rivoluzionario proletario” che serve alla lotta di classe mondiale. Evidenziano, senza per ora denunciarlo (lo faranno presto), che i russi hanno scelto la collaborazione con l’imperialismo e il capitalismo di Washington e dei “suoi lacchè”. Rivendicano il diritto alle vie nazionali, e il dovere alla dittatura del proletariato, alla lotta dei paesi poveri contro lo sfruttamento di cui soffrono.
Un anno dopo, nel luglio 1964, Mao consuma l’escalation accusando le due superpotenze di complicità anticinese. Va anche oltre: "stanno programmando di mettere sotto controllo il mondo intero". Non parla più da leader ideologico, ma da comandante in capo di un paese che sta iniziando ad incunearsi negli affari internazionali. Denuncia gli accordi di Jalta, accusa l’Urss di Stalin di aver indebitamente occupato e incorporato, nelle more della fine della Seconda guerra mondiale, la Mongolia esterna, la Bessarabia, zone tedesche polacche finlandesi. Uno scivolone non da poco quest’ultima accusa, che mal si concilia con il filostalinismo di Mao.
Lo scontro cino-sovietico disse che ogni ideologia che prende il potere e si fa Stato, cede prima o poi il passo all’interesse nazionale e alla sua logica. Disse che la Cina era pronta al grande balzo verso autonomia e potenza: dopo l’ingresso nel club nucleare, sepolta la rivoluzione culturale, arriverà, nonostante la strage di piazza Tienanmen, lo sviluppo economico e finanziario di Deng, Il pragmatismo cinese avrebbe lasciato irrisolta la questione dello sviluppo dei paesi arretrati, così come quella del rapporto tra arricchimento e democrazia. Su di esse può ora cadere l’esperimento cinese. La leva finanziaria da sola non produce sviluppo, come i cinesi scoprono in Africa. L’arricchimento materialq deve procedere con la libertà di coscienza e di parola.
Questo articolo viene pubblicato anche su Oggi7-America Oggi