Sono un “ragazzo” del ‘77. Quando frequentavo la scuola elementare e media, di mafia, pur vivendo a Marsala – città attraversata in quegli anni da una sanguinosa guerra tra clan rivali – non si parlava. I giornali in classe entravano, eccome, ma l’argomento mafia era considerato tabù. Si parlava di Chernobyl, dell’importanza del rispetto dell’ambiente. C’era la “giornata del nonno”, mi ricordo. E roba simile. Ma mafia, niente.
Poi scoppiarono le bombe, quelle del 1992: Capaci prima, Via D’Amelio. E quello fu il punto zero della nostra moderna coscienza antimafia. Io sono figlio di quella stagione: improvvisamente, a scuola, cominciarono i primi corsi sull’educazione alla legalità, i primi laboratori, le conferenze e i cineforum. Iniziò la stagione dell’antimafia nelle scuole. Un’onda lunga, fatta di passione civile, dettata dall’ansia di strappare alla cultura mafiosa le nuove generazioni di siciliani.
Solo che negli ultimi anni qualcosa si è perso. E l’educazione antimafia, in molte scuole, è diventata mero esercizio di retorica. Dispiace dirlo. Io giro tantissime scuole e il panorama è desolante. L’educazione antimafia è in molti casi un qualcosa che si fa per moda, o, peggio ancora, per obbligo. Siccome lo Stato e gli enti locali, per avere la coscienza a posto, sono prodighi di finanziamenti appena sentono la parola “antimafia”, le scuole fanno a gara per fare il progetto più fantasioso, pieno di testimonial (più che di testimoni) dell’impegno antimafia. Oppure spacciano per educazione alla legalità tutto, dai laboratori di ceramica ai corsi di scacchi. Nei contenuti, poi, l’educazione antimafia si risolve nella proiezione dei soliti film arcinoti (e spesso arci noiosi), nella preparazione di cartelloni (con slogan tipo “Giovanni e Paolo sempre con noi” e frasi di Borsellino e Falcone ripetute all’infinito) o di power point da proiettare in manifestazioni alla presenza di genitori e autorità, dove qualche ragazzino ripete a memoria il lungo elenco dei morti di mafia in Sicilia. Temibili sono poi gli incontri con l’autore, dei quali spesso io stesso sono “vittima”: parlo a ragazzi annoiati, già stanchi – come è normale che sia, per la loro età – dopo 10 minuti, che si consolano sapendo che grazie all’ennesima iniziativa antimafia saltano magari il compito in classe di matematica, e che leggono, spesso in un italiano stentato, le domande preparate ad arte dai professori all’autore. E’ tutto un gran gioco delle parti. Un’educazione alla legalità fatta in questo modo, senza contenuti, con un esercizio della memoria fine a se stessa non porta da nessuna parte. Mi piacerebbe incontrare scuole dove i ragazzini non sanno a memoria i nomi delle vittime di mafia negli ultimi 30 anni, ma magari hanno la consapevolezza del peso della corruzione nel nostro Paese (per la cronaca 60 miliardi l’anno) e sentono un sano istinto di ribellione. E’ stata importante l’antimafia nel nostro Paese. Lo ripeto: io sono figlio di quella cultura. Ma oggi che la mafia è cambiata, oggi che c’è questa Cosa Grigia nuova nella forma e nei contenuti rispetto alla mafia tradizionale, anche l’antimafia ha bisogno di cambiare, cominciando proprio dalle scuole.
Non è un caso se poi, numeri alla mano, i giovani hanno una percezione del fenomeno mafioso che rende vani tutti i soldi e gli sforzi spesi nei progetti di educazione alla legalità. Lo rivela una ricerca del centro Pio La Torre, disponibile sul sito www.piolatorre.it. Per i ragazzi (più di 2000) intervistati la mafia è più forte dello Stato.
Per il 45.06% degli studenti la mafia non potrà essere definitivamente sconfitta e per il 94.52% la mafia ha un rapporto molto o abbastanza forte con la politica. Poco meno della metà degli intervistati, il 49.35%, ritiene che la mafia sia piu' forte dello Stato. Il 70% dei ragazzi intervistati ha partecipato almeno una volta ad un progetto antimafia organizzato dalla propria scuola. Eppure sono scettici sulla capacità di sconfiggere la mafia. Forse dovremmo cominciare a fare meno corsi antimafia, e più corsi di “speranza”, di civile speranza: dare ai ragazzi la possibilità di prendere in mano il loro destino. Tutto ciò è possibile solo se si abbandonano la retorica, le grandi manifestazioni, i riti collettivi, e si comincia a lavorare sui piccoli gruppi, sul confronto, sul dialogo. Chiamando le cose per nome. È un'utopia, lo so. La scuola italiana non ha tutto questo tempo. Ma senza tempo non c’è futuro. Senza futuro non c’è speranza. Senza speranza non c’è educazione alla legalità che tenga.