Neppure l’incarico al bravo Enrico Letta per il governo di “servizio nazionale”, fa calare il sipario sul risibile spettacolo offerto dal partito Democratico nel dopo voto, sino all’epilogo delle dimissioni di Pierluigi Bersani da segretario. Quanto i dirigenti democratici sono stati capaci di combinare nel corso dei due mesi che ci separano dalle elezioni, richiama il commento espresso, ai suoi tempi, dallo scrittore Ennio Flaiano: “La situazione è grave ma non seria”. Basti dire che hanno rimesso in sella il disarcionato Berlusconi, al quale hanno consegnato un successo in tre quadri, che ruba la scena persino alla performance di Letta junior. Il Pdl, che annovera al vertice autentici eversori, figura come il più convinto difensore della linea “ragionevole” di Napolitano sul governo di larghe intese, è chiamato nell’esecutivo nonostante abbia perso le elezioni, fa l’unzione del candidato primo ministro avendo rifiutato ogni altro leader democratico incluso il rampante Renzi. Non basta: pilotando il rinnovo del mandato presidenziale di Napolitano, crea le condizioni per la candidatura di Berlusconi alla successione. Geniali ‘sti Democratici, neh? Ovviamente non di genialità si tratta ma di analfabetismo politico di un gruppo errabondo nella tattica, ignorante in strategia, che ha ripercorso strade piuttosto familiari ai leader della sinistra, quelle dell’estremismo parolaio e del moralismo presuntuoso che contribuirono ad ispirare a Lenin il libro su ”L’estremismo come malattia infantile del comunismo”. Sembra che certa sinistra non abbia ancora appreso la dura lezione della storia: che ha regalato a Mussolini l’Italia che poteva essere di Turati, ai democristiani quella che poteva essere di Nenni Saragat e Parri, a Berlusconi quella che doveva essere dell’allora centro-sinistra, e ancora a Berlusconi quella che era l’Italia di Prodi vincitore sul cavaliere.
È l’autolesionismo spocchioso di chi pretende di rappresentare i ceti popolari e né li conosce né sa interpretarli. Reiterato di generazione in generazione da qualunque “forma” partitica lo abbia espresso, è un comportamento che fa ritenere alberghi, a sinistra, un virus di cretinismo politico tale da suggerire la riformulazione aggiornata della citazione di Lenin. Come altro definire un raggruppamento che elimina a distanza di poche ore due suoi leader storici, Marini e Prodi, dopo averli candidati alla presidenza della Repubblica? Luciano Lama, il migliore sindacalista comunista che abbia avuto il secondo novecento italiano, di fronte ai colleghi che propugnavano scioperi e lotte, amava ripetere che il sindacato esiste per firmare i contratti non per scioperare. Con lo stesso metro va ricordato ai dirigenti della sinistra che un partito esiste per prendere il potere e governare, non per contemplare il proprio ombelico gloriandosi che sia più bello di quello esibito dalla destra. Non sapendo trasformare il consenso in arte di governo, la sinistra ha privato la storia italiana delle riforme e del rinnovamento che può venire solo da coloro che, per dirla con il liberale Luigi Einaudi, esprimono “l’idea della cooperazione o solidarietà o dipendenza reciproca degli uomini viventi in società”. Manca, nel Dna della nostra sinistra, il pragmatismo riformista del socialismo democratico all’europea, mentre alligna l’a-politicità dell’idealismo all’italiana comunista e cattosociale. È da qui che vengono i comportamenti denunciati da Napolitano nel discorso di investitura, che rischiano ora di portare alla disintegrazione il Pd.