Il conflitto tra sfere privata e pubblica nei personaggi della storia, è prepotentemente alla ribalta con la vicenda di Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1991, chiamata dai birmani semplicemente “la signora”, titolo che Luc Besson ha scelto per il film che ne racconta la vita. Avvenimenti recenti hanno mostrato come la statura rimarchevole della “lady” di Rangoon risultasse indecifrabile per membri della famiglia, segnatamente figlio e fratello, uniti a Suu Kyi dal vincolo biologico ma estranei al bagaglio di religiosità, etica personale, passione politica e patriottismo che hanno reso l’esile eroica figurina di 50 chili, che da sola ha resistito al feroce esercito di 300 mila uomini, icona dei nostri tempi.
I drammi della famiglia di Suu Kyi coincidono con l’andamento della lotta per il potere nel suo paese. La futura premio Nobel perde nel 1947, a due anni di età, il padre, generale Aung San, eroe dell’indipendenza dagli inglesi e leader progressista, assassinato in un agguato. Sua madre continua l’opera del marito ed è ambasciatrice in India.
Lei la segue e si laurea ad Oxford in Filosofia, Scienze Politiche ed Economia. Continua a studiare a New York ed entra alle Nazioni Unite. Al college aveva conosciuto lo studioso di culture tibetane Micheal Aris che sposa nel 1972 facendone il padre di Alex e Kim. Da Oxford, dove il marito insegna, rientra in patria nel 1988 per assistere la madre malata, e si ritrova nell’inaspettato orrore della rivolta e della repressione nel sangue. In sintonia con il marito che le dona affetto e complicità, fonda la Lega Nazionale per la Democrazia. Segue gli insegnamenti di Gandhi sulla non violenza e oppone le ragioni sue e del popolo alla brutalità di una giunta che cambierà persino il nome del paese in Myanmar.
E’ costretta agli arresti domiciliari, mentre il regime inscena elezioni burla, che lei, anche nel ricordo della gloriosa figura paterna, stravince con un plebiscito di 392 seggi,. E’ il 1990: il risultano elettorale viene annullato, la leader della Lega di nuovo ai domiciliari. La giunta le consente di lasciare il paese, se lo desidera, ma è implicito che non le sarà consentito di rientrare. Suu Kyi sceglie di restare con la sua gente, rinunciando agli affetti familiari e alla vita di donna amata amante. Con brevissime pause la situazione repressiva interna rimarrà la stessa sino al 2010, quando i generali saranno costretti a cedere alle pressioni internazionali liberando il premio Nobel.
Nel frattempo Aris è morto di cancro alla prostata nel 1999: aveva rivisto cinque volte sua moglie in Birmania, ma non dopo che gli era stato diagnosticato il male perché, nonostante gli interventi delle maggiori autorità mondiali incluso il papa e il segretario generale dell’Onu, la giunta non gli aveva concesso il visto, premendo sulla moglie perché volasse ad abbracciare il marito morente. I figli sono cresciuti senza madre né padre. Quando a giugno Suu Kyi torna a Oxford per ricevere la laurea honoris causa, e viaggia in Europa, Alex, trentanovenne membro della comunità buddista dell’Oregon, è assente volontario.
Nel 1991 aveva letto per conto della madre il discorso di accettazione del Nobel, ma adesso non vuole vederla condannandola come madre e moglie. Al rientro a Rangoon altra sgradevole sorpresa per la “lady”. Il fratello, il californiano Aung San Oo, vicino alla giunta, ha vinto la causa per la comproprietà della casa dove lei è stata prigioniera per quindici anni, e la minaccia di sfratto.
Visto che Suu Kyi si è espressa nel solco di Gandhi, vale la pena ricordare che il primogenito del Mahatma, Harilal, fu per tutta la vita in fuga dall’immensa figura paterna, fallendo negli affari, scegliendo l’islam contro l’induismo, stordendosi con l’alcol.
Guadagnò a ragione il disprezzo dell’austero genitore. Nella vicenda della “grande anima” birmana c’è da considerare anche l’elemento femminile. Vi sono famigliari che non accettano in una donna tratti comportamentali (attaccamento alla professione, patriottismo, leadership politica, carisma) che si concedono a un uomo, quasi che la sfera degli affetti naturali sia il cerchio nel quale la donna debba restare rinchiusa per l’intera esistenza. In questo mariti e compagni, se e quando amano davvero, sono migliori di figli e fratelli.