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July 8, 2012
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FUORI DAL CORO/ Prescritti e mazziati

Fabio CammalleribyFabio Cammalleri
Time: 6 mins read

La Corte di Cassazione ha reso definitiva la vicenda giudiziaria della scuola Diaz. Polizia, violenze, manifestanti. Agenti e funzionari della Polizia di Stato sono stati ritenuti colpevoli di falso, cioè di avere alterato la ricostruzione investigativa della loro condotta, o di loro colleghi, mentendo o proprio formando documenti falsi. Quanto alle lesioni che avrebbero procurato ai manifestanti, il reato è stato dichiarato prescritto.

Oggi tenterò di precisare un concetto: credo sia utile, vista la diffusione dell’argomento. Scrivo "avrebbero" e non "hanno", perché la dichiarazione di prescrizione non equivale ad una condanna, cioè ad un accertamento di responsabilità, cui il tempo tiranno ha tagliato le unghie (cioè la pena). Lo so che alcuni lo dicono. Ma equivocano, sapendo di equivocare. Costoro sostengono che un reato non può essere dichiarato estinto, per prescrizione o per altra causa, se non si ritiene esistente.

Si estingue quello che c’è, non quello che non c’è, osservano. Tanto è vero, proseguono, che l’art. 129 del nostro Codice di Procedura Penale, pur quando è decorso il tempo prescrizionale, impone al giudice di assolvere l’imputato con formula piena. Se il giudice dichiara la prescrizione e non pronuncia assoluzione, concludono, ciò significa che, pur ritenendo il reato, ha dovuto subire la "museruola" della prescrizione. Sembra facile. Ma non lo è. Infatti, questa regola alternativa, prescrizione-assoluzione, non è libera, ma sottoposta a precise condizioni. Primo: l’assoluzione, al posto della prescrizione, va pronunciata "quando dagli atti risulta evidente che…"., cioè quando vi sono elementi univoci, quasi sovrabbondanti, per assolvere. Secondo: questa valutazione, se "agli atti" vi siano cioè elementi ampiamente discolpanti oppure no, va fatta "in ogni stato e grado del processo"; vale a dire, nell’istante in cui matura il tempo di prescrizione. Tale condizione comporta, allora, che se il giudice dichiara la prescrizione, non significa che non vi siano risultanze idonee a giustificare un’assoluzione, ma solo che, a quel punto del processo, non ce ne sono con quelle caratteristiche di sovrabbondanza ed univocità.

Potrebbero essercene però di più complesse, più difficili da interpretare, ma non per questo da considerare carta straccia. Risultanze che potrebbero ugualmente condurre all’assoluzione, giacchè la Costituzione esige che sia il Pubblico Ministero a provare la colpevolezza e non l’imputato l’innocenza.

Solo che, quando è maturata la prescrizione, i poteri di valutazione del giudice si restringono, e gli impongono di assolvere solo in presenza di risultanze sovrabbondanti. In genere si obietta che questa "restrizione", e la correlativa area di "potenziale" innocenza rimasta inesplorata, non vale quando il giudice compie la scelta prescrizione-assoluzione alla fine del dibattimento: perché, in  questo caso, le parti hanno avuto modo di esprimersi in lungo e in largo e, perciò, non avrebbe senso lasciare "zone d’ombra": alla fine del dibattimento, si dice, se si dichiara la prescrizione è perché proprio non c’era modo di assolvere, né sulla base di risultanze sovrabbondanti, nè sulla base di risultanze ancora "aperte".

Neanche questo è vero in termini così assoluti. La Corte di Cassazione ha più volte affermato, infatti, che, addirittura in sede di Appello (dunque non solo dopo un dibattimento, ma pure dopo la sentenza e la motivazione di primo grado), quel requisito della "evidenza", la conseguente restrizione del potere valutativo e, dunque, il permanere di un’area di assoluzione "potenziale", ma ormai impedita dal decorso della prescrizione, rimangono validi e inalterabili. Così, neanche se dichiarata all’esito del dibattimento, la prescrizione può senz’altro significare che non c’era alcuno spazio per l’assoluzione.

Ma perché il codice prevede che, maturata la prescrizione, si possa assolvere solo "quando risulta evidente che…" e non anche quando risulti e basta? Perché è una regola, e come ogni regola che si rispetti, media fra interessi contrapposti. L’interesse della pubblica accusa a provare la sua tesi, l’interesse del cittadino a non rimanere "a disposizione" del processo per un tempo indefinito, o comunque così lungo da porsi in contrasto con l’essenza stessa del "giusto processo", cioè la sua "ragionevole durata".

La dichiarazione di prescrizione, da un lato, "sacrifica" l’interesse della pubblica accusa a provare la sua tesi: ma non del tutto, perché ha avuto a disposizione un certo numero di anni; dall’altro, "sacrifica" l’interesse del cittadino a vedersi riconosciuta l’innocenza: ma non del tutto, perché, se le risultanze sono sovrabbondanti, questo interesse viene soddisfatto.

In un caso, rimangono "tagliati fuori" gli ulteriori accertamenti che il Pubblico Ministero avrebbe potuto svolgere; nell’altro, rimangono "fuori" le risultanze controverse, che pure avrebbero potuto sostenere un’assoluzione ma che, nel momento in cui matura la prescrizione, non sono ritenute univoche.

Ma, sullo sfondo, prevale il cittadino, non il Pubblico Ministero. L’accertamento giudiziario non è un diritto dell’accusa, è un suo dovere-possibilità che si muove in uno spazio concesso dal cittadino allo Stato. Tanto è vero che l’imputato-cittadino, e non il Pubblico Ministero, può rinunciare alla prescrizione. Si rinuncia a ciò che è proprio, non a ciò che è degli altri. E ciò che è proprio è di non essere trasformato da uomo a cui si può chiedere conto dei suoi comportamenti, in materia amorfa per infinite esercitazioni ipotetico-congetturali.

Tuttavia, anche su questo punto, rinuncia alla prescrizione e ulteriore corso del processo, occorre cautela. Perché l’equivalenza fra una rinuncia alla prescrizione e una "buona fede" dell’imputato, implica una teorica infallibilità del giudizio. Poiché, si finge infatti di credere, sempre i giudici sanno riconoscere l’imputato innocente, se questi preferisce la prescrizione, e non chiede di proseguire, è perchè sa di essere colpevole.

Ora, non è nemmeno il caso di illustrare quanto una simile ipotesi sia irreale, per lo meno posta in termini così assiomatici.

Sicchè, un imputato che abbia maturato il diritto ad essere reintegrato nella pienezza della sua libertà, più o meno conculcata da un accertamento penale che dura da anni, potrebbe certo chiedere di andare avanti; ma, pur in presenza di

elementi capaci potenzialmente di assolverlo (dopo opportuni approfondimenti) ma non ancora ritenuti univoci, potrebbe anche pensare di essere stanco di questa parentesi che dilania le sue giornate, di pagare avvocati, di sentirsi esistenzialmente "precario" e di chiuderla lì.

In un Paese civile, quando matura una prescrizione, se proprio si vuole dare il tormento a qualcuno, occorre darlo ai Soggetti pubblici del processo, (Pubblico Ministero e Giudice) non al cittadino. In un Paese civile.

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Fabio Cammalleri

Fabio Cammalleri

Il potere di giudicare e condannare una persona è, semplicemente, il potere. Niente può eguagliare la forza ambigua di un uomo che chiude in galera un altro uomo. E niente come questa forza tende ad esorbitare. Così, il potere sulla pena, nata parte di un tutto, si fa tutto. Per tutti. Da avvocato, negli anni, temo di aver capito che, per fronteggiare un simile disordine, in Italia non basti più la buona volontà: i penalisti, i garantisti, cioè, una parte. Forse bisognerebbe spogliarsi di ogni parzialità, rendendosi semplicemente uomini. Memore del fatto che Gesù e Socrate, imputati e giudicati rei, si compirono senza scrivere una riga, mi rivolgo alla pagina con cautela. Con me c’è Silvia e, con noi, Francesco e Armida, i nostri gemelli.

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